Libertà non significa assenza di regole, specie in pandemia

 

Il 25 Aprile siamo stati sopraffatti dalla barbarie di una movida senza limiti e regole nemmeno di buon senso, partecipata da chi, con tutta evidenza, del valore e del significato della Liberazione non sa proprio nulla. Abbiamo visto molte piazze italiane stracolme di persone incuranti del fatto che siamo nel bel mezzo di una pandemia. In particolare abbiamo assistito a ciò che è avvenuto a Firenze, in piazza Santo Spirito, dove di fatto era impedito il passaggio ai residenti. Tutto questo in nome delle libertà delle persone. Ma cosa è la libertà? Si può limitare in nome di un valore più grande? Se sì, fino a dove? Ha ancora senso parlare di autolimitazione in nome del principio più alto del bene comune? La salute del prossimo e soprattutto dei più deboli e fragili è oggi percepita come bene comune e come interesse generale?

Carlo Mosca, il mestiere del prefetto lontano dai flash

 

Carlo Mosca, deceduto due giorni fa a Roma (era nato a Milano nel 1945) è stato un servitore esemplare della Repubblica, come Direttore della Scuola Superiore del ministero dell’Interno, capo di gabinetto dei ministri dell’Interno Amato e Pisanu, Prefetto di Roma, vicedirettore del Sisde, membro del Consiglio di Stato. Esemplare perché intendeva e viveva il servizio alla Repubblica come “impegno silenzioso e lontano da ribalte illuminate” sostenuto e guidato dalla “forza interiore” che consiste nella “capacità morale, spirituale e intellettuale di cogliere, recepire e vivere un valore o più valori”, come ha scritto in uno dei suoi libri più importanti, Il prefetto e l’unità nazionale del 2016. Non perdeva occasione per spiegare ai prefetti, anziani e giovani, la speciale dignità che servire la Repubblica, con disciplina e onore, conferisce alla persona. La sua è un’eredità morale, prima ancora che intellettuale, che si distacca nettamente dalla ricerca sfrenata della fama e del potere che pervade tanta parte della nostra vita pubblica. È inestimabile. Carlo Mosca non ci ha lasciato soltanto insegnamenti sul significato e il valore del servizio alla Repubblica, ma una concezione della vita guidata dal principio del dovere. “L’esaltazione del dovere o meglio dei doveri – ha scritto – è importante quanto l’esaltazione dei diritti, soprattutto in un momento storico in cui sembra forte solo l’affermazione dei diritti, i quali non possono essere vissuti ed esercitati consapevolmente, se si perde il senso del rispetto del dovere o dei doveri”. Intendeva il dovere e il servizio alla Repubblica in una prospettiva cristiana che si traduceva nell’attenzione generosa nei confronti delle persone. Chiunque ha avuto la grande fortuna di conoscerlo, ha trovato in lui un maestro di vita e un amico. Oltre al figlio Davide, lascia tanti amici e allevi nell’amministrazione dello Stato, e nelle università. Il suo esempio e i suoi scritti devono diventare il fondamento di una scuola che educhi veri servitori dello Stato. Era il suo sogno.