La libertà è faticosa. Meglio essere servi.



Siamo sicuri che gli esseri umani vogliano vivere liberi e detestino essere dominati? Se interroghiamo gli scrittori politici repubblicani, democratici e liberali la risposta, con varie accentuazioni, è positiva; se leggiamo la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskji, la risposta è negativa. Tranne una piccola minoranza di spiriti forti, gli esseri umani considerano la libertà un pesante fardello che volentieri depongono nelle mani di chi è disposto a prendersi la briga di scegliere per loro, in cambio della totale sottomissione.

La storia è nota: Cristo ritorna sulla terra, a Siviglia, il giorno dopo il grandioso rogo di un centinaio di eretici sotto lo sguardo impassibile del Grande Inquisitore. Riconosciuto, Cristo è gettato  in carcere dove riceve la visita del Grande Inquisitore che lo accusa di essersi preoccupato soltanto dei pochi che amano la libertà e non dei milioni e milioni di poveri esseri che desiderano soltanto di potersi genuflettere insieme e godere della felicità del gregge che non si pone domande, o di quella dei bambini che giocano felici, ignari del mondo che li circonda.  
Come ha commentato finemente Gustavo Zagrebelsky nel suo saggio Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi, 2015), Dostoevskji fa dire al protagonista della Leggenda che “gli esseri umani, secondo la loro natura, non sono affatto portati alla libertà.” Il segreto del potere è dunque semplice: per avere un dominio assoluto sugli esseri umani non bisogna affatto pretendere di correggerli; bisogna invece assecondarli, blandirli, lasciarli sfogare. Quello del Grande Inquisitore è un potere amico dell’”uomo comune”, ostile ai pochi aristocratici dello spirito che vogliono e possono distinguersi dal volgo.
L’errore capitale di Cristo, secondo il Grande Inquisitore, è stato di aver rifiutato, la prima volta che venne sulla terra, i doni che il tentatore gli offrì nel deserto, primo fra tutti la possibilità di distribuire pane. Se tu avessi dato alle moltitudini il pane, spiega l’Inquisitore a Cristo, essi sarebbero corsi dietro di te come un branco di pecore, e avrebbero gridato: “magari fateci schiavi, ma dateci da mangiare”. Ma Cristo rispose “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. E “pane”, chiosa Zagrebelsky, non vuol dire tanto l’essenziale per vivere quanto i bisogni artificialmente moltiplicati.
Il secondo dono che Cristo rifiuta è quello del miracolo e del mistero. Cristo, sottolinea Zagrebelsky, fece miracoli, ma erano atti d’amore, non strumenti per conquistare le menti degli uomini. Il miracolo evoca il mistero, una conoscenza della dimensione ultima e segreta delle cose inaccessibile ai molti. Chi sa far credere di possederla e promette soluzioni miracolose ai mali dell’umanità, può esigere la gratitudine e l’obbedienza delle moltitudini.
Il terzo dono che Cristo rifiuta è il regno, anzi, tutti i regni del mondo. Su questo punto l’interpretazione di Zabgrebelsky è particolarmente raffinata: per l’Inquisitore non si tratta di adeguare le coscienze alle esigenze del potere, ma di “riempirle esclusivamente di desiderio di soggezione” andando incontro al loro desiderio di “salvarli da loro stessi”. Non dominio imposto con la forza, ma regno su servi liberi.
Oltre alla soddisfazione dei bisogni insaziabili, al mistero e alla conquista delle coscienze, l’ultimo segreto del potere sugli uomini che la Leggenda rivela è l’illusione. Le parole dell’Inquisitore sono splendide e terribili: “in silenzio essi morranno, in silenzio si estingueranno nel nome Tuo, e oltre la tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto, e per la loro stessa felicità, li culleremo nell’illusione d’una ricompensa celeste ed eterna.”  
Se guardiamo al nostro presente nella sua dimensione economica, ideologica e politica, sostiene Zagrebelsky, dobbiamo concludere che l’Inquisitore ha vinto: gli esseri umani si godono felici la libertà di soddisfare i propri desideri, ottusi, livellati, incapace di pensare con la propria testa, senza alcun desiderio di interrogare la propria coscienza. L’uomo del nostro tempo “non deve pensare ma divertirsi, non deve essere turbato, scosso, tormentato, ma deve essere distratto, ammansito, pacificato con se stesso.” (p. 229)
Eppure la conclusione della Leggenda uno spiraglio di speranza lo lascia intravedere. Cristo, dopo aver ascoltato in silenzio il discorso dell’Inquisitore, si avvicina al vecchio e “lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne”. Il vecchio sussulta e lascia libero Cristo con l’ingiunzione di  non tornare mai più. Cristo esce dal carcere, ma non ascende al cielo. Si addentra nei vicoli bui dove abita l’umanità degradata. A quei servi liberi e felici riproporrà di nuovo il suo messaggio di libertà. È uno spiraglio angusto, ma permette di immaginare una libertà diversa da quella del gregge.                                                        

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