Bobbio e Sartori: maestri militanti

 

Quest ’anno ricorre il ventesimo anniversario della morte di Norberto Bobbio (1909-2004) e il centenario della nascita di Giovanni Sartori (1924-2017).

Mai ideologi di regime, mai corifei di partito, mai servi di politici potenti; hanno scritto libri che hanno lasciato un’impronta profonda in chi li ha letti e capiti, e suscitato le ire dei politici corrotti, come Craxi, che accusò Bobbio di essere un filosofo “che aveva perso il senno”. Di Bobbio basti citare Po - litica e cultura (1955), Destra e sinistra (1976), Il problema della guerra e le vie della pace (1979), Il futuro della democrazia (1984), Tra due Repubbliche. Alle origini della democrazia italiana (1996); di Sartori, Homo videns (1997) Mala tempora (2004), Mala costituzione e altri malanni (2006), Il sultanato (2009). Ebbero tuttavia un diverso rapporto con l’attività politica. Bobbio partecipò alla Resistenza antifascista e militò, senza mai ricoprire incarichi di partito o cariche pubbliche, in Giustizia e Libertà, nel Partito d’Azione, nel Psu, nel Psi di Francesco De Martino, e fu senatore a vita dal 1984. Che io sappia, Sartori si tenne più lontano dalla militanza politica in senso stretto. Bobbio aveva più lo stile dell’umanista che dello scienziato politico; Sartori più dello scienziato politico che dell’umanista. Mentre lo scienziato limita il suo campo d’indagine a un ambito ben definito, l’umanista cerca di capire la condizione umana in tutti i suoi aspetti. L’ammirazione di Sartori per Bobbio come intellettuale militante risale, credo, alla metà degli anni Cinquanta quando Bobbio pubblicò per Einaudi, nel 1955, Politica e cultura: “Quel libro, quella splendida raccolta di saggi, è uno dei libri che mi hanno influenzato. È un testo che insegna a tutti noi (spero) che l’uomo di cultura deve evitare due estremi: da un lato l’estremo della cultura politicizzata che obbedisce alle direttive dei politici, e dall’altro l’estremo della cultura che si rinchiude in una torre d’avorio ”. Bobbio “è approdato alla scienza politica anche, e forse soprattutto, in funzione della sua passione civile”. Cito dal bel libro di Gianfranco Pasquino, Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica. Con il passare degli anni si consolidò fra i due studiosi una profonda amicizia. Fin dall’inizio dell’era berlusconiana, Bobbio fu un oppositore intransigente. Il 10 febbraio 1994, su La Stampa, tre mesi prima dell’insediamento del primo governo Berlusconi, Bobbio pubblica l’editoriale La separazione come arte liberale dove sostiene che “Non ha precedenti in Paesi democraticamente più maturi del nostro una tendenza all’unificazione del potere politico col potere economico, e col potere culturale attraverso il potentissimo strumento della televisione, incomparabilmente superiore a quello dei giornali, che tuttavia furono chiamati il quarto potere, come quella che si intravede nel movimento di Forza Italia. L’unificazione dei tre poteri in un solo uomo o in un solo gruppo ha un nome ben noto nella teoria politica. Si chiama, come lo chiamava Montesquieu, dispotismo”. Due anni più tardi, in un articolo scritto pochi giorni dopo la vittoria della coalizione dell’Ulivo guidata da Romano Prodi (21 aprile 1996), Bobbio insiste sul carattere personale, demagogico, teatrale del potere di Berlusconi e descrive Forza Italia come il primo “partito personale di massa”: “Ma la novità assoluta e strabiliante di Forza Italia sta nell’essere, come dire? Il primo partito personale di massa. Chi ha votato Forza Italia, non ha scelto un programma, ha scelto una persona, quel signore sempre elegantissimo, che conosce bene l’arte di attrarre l’attenzione su di sé con il suo eloquio, la sua maniera disinvolta e accattivante di muoversi e di rivolgersi al proprio pubblico, anche raccontando di tanto in tanto, con la perizia del vecchio comico, una barzelletta; sempre sorridente, sicuro di sé, abile semplificatore di concetti economici tanto da renderli alla portata di tutti; bravissimo nel farsi compiangere come vittima di complotti, di cospirazioni, di tradimenti, ingenuo bersaglio di nemici cattivi e di perfidi alleati. L’avrete pur visto qualche volta quando preceduto dal suo inno entra in un grande salone gremito di gente, che al suo arrivo si alza in piedi e per alcuni minuti grida, anzi, invoca ‘Silvio, Silvio!’”. Anche Sartori fu un critico severo della prima ora. Habemus gubernum, “abbiamo il governo”, scrive il 24 aprile 1994, meno di un mese dopo le elezioni del 27 e 28 marzo che aprirono la via al primo governo Berlusconi. “E ora? Avere un governo non è avere governabilità, e cioè un governo in grado di governare, con forza di governare. Il Cavaliere è balzato in sella; ma il suo cavallo ha tutta l’aria di essere un ronzino”. Tre mesi dopo, Sartori accusa Berlusconi di volere un potere senza limiti: “L’esercizio maggioritario del potere non comporta che un governo debba ‘prendere tutto’ (‘est modus in rebus’) e che qualsiasi negoziato, qualsiasi compromesso, siano per forza nefandezze ‘consociative’”. Con la sua ironia fiorentina, Sartori conia per Berlusconi epiteti che non hanno bisogno di commento: “Cavalier Traballa” (9 giugno 1997); “Cavalier Giravolte” (16 febbraio 1999). Ironico sì, ma anche molto serio e severo quando difende contro Berlusconi i principi della democrazia liberale. “Lo scandalo della politica italiana è che i voltafaccia non importano, le figuracce non contano, nessuno si vergogna di niente. Va detto a tutta gola, allora, che tutto questo è vergogna. La prima regola dell’essere seri è di rispettare le regole della democrazia. A me è stato insegnato, e ho amia volta insegnato, che democrazia è rispetto della regola di maggioranza; sempre, e non soltanto quando l’odore è giusto e quando fa comodo”, (9 giugno, 1997). Quello di Berlusconi, scrive Sartori nel gennaio del 2002, è un “padronato personalizzato”. Un mese dopo descrive il potere di Berlusconi come uno “strapotere anomalo”: “Grosso modo, in Italia i poteri che dovrebbero frazionare il potere sono cinque: esecutivo, legislativo, giudiziario, presidenziale, più (di fatto) il potere mediatico. Ma tre di questi poteri si stanno fondendo in un inedito ‘dispotismo elettivo-mediatico’ che spaventerebbe a morte persino gli smaliziatissimi Madison e Hamilton; e un altro potere, quello giudiziario, vacilla sotto un pesante attacco” (5 febbraio 2002). Passano sette anni e Sartori elabora l’idea del dispotismo elettivo-mediatico nella teoria del sultanato. Vale la pena di citare il passo per intero: “Nei suoi due precedenti periodi di governo Berlusconi si è impegnato a salvare se stesso dalla magistratura e a corazzare un impero tutto intriso di conflitti e di abusi di interesse. Questa volta su questo fronte è oramai tranquillo. E si è così dato a costruire, all’interno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfera di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispotico. […] Il Cavaliere sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone. Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole harem di belle donne. Il sultanato era un po’ così”. Il sultanato, nella tipologia di Montesquieu, è una forma di potere dispotico, le altre sono la Cina e la Persia. Come ho scritto all’inizio di questo articolo, nel 1994, Bobbio per descrivere il potere di Berlusconi, cita il concetto di dispotismo elaborato da Montesquieu. La convergenza di idee fra Bobbio e Sartori è significativa. Significativa, ma affatto sorprendente. Erano entrambi leali allo spirito autentico del liberalismo, la visione politica che detesta i poteri illimitati, enormi, arbitrari. La loro critica all’ideologia e al sistema di potere berlusconiani è una magnifica lezione di liberalismo autentico e un esempio di coraggio morale.

Don Minzoni, morte di un antifascista


 

Cent ’anni fa, il 23 agosto 1923, i fascisti assassinarono a colpi di bastone e sassate il sacerdote cattolico don Giovanni Minzoni. Papa Pio XI non pronunciò alcuna parola di condanna. L’arcivescovo di Ravenna, monsignor Antonio Lega non presenziò ai funerali. Si fece rappresentare da un suo segretario. Nel marzo di quest’anno, il Vaticano ha avviato il procedimento per la beatificazione di don Minzoni. Pochi giorni fa, nell’anniversario della morte, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, ha reso onore alla memoria di don Minzoni nel duomo di San Niccolò di Argenta e ha pronunciato una condanna senza appello dell’ideologia e dei metodi del fascismo.

Dal Duce alla Dc, la ragion di Stato è antidemocratica.

 

“Possibile che siate tutti d’accordo, nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese (?). Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti”. Con queste parole, scritte dalla “prigione del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le Brigate rosse, Aldo Moro, presidente della Dc, indicava nella “presunta ragion di Stato” il principio di azione politica che, fatto proprio dai dirigenti del suo partito, escludeva ogni soluzione umanitaria o di compromesso e lo condannava a morte. Moro esortava invece i dirigenti della Dc a “contemperare ragioni umane e morali”e spiegava che con la loro “inerzia, insensibilità e rispetto cieco della ragion di Stato”, essi reintroducevano di fatto la pena di morte in Italia. A commento di queste drammatiche parole di Moro, Gianfranco Borrelli, nel suo importante saggio Repubblica, ragion di Stato, Democrazia cristiana (Cronopio) osserva che Moro si appellava alla “buona ragion di Stato” che difende le libertà politiche, civili e sociali, contro la “cattiva ragion di Stato”che sacrifica la vita di un uomo in nome dell’interesse supremo dello Stato. Ha ragione Borrelli quando sostiene che la dottrina della ragion di Stato non ha soltanto autorizzato “a stravolgere ogni genere di norma”per difendere l’interesse dello Stato, ma è stata anche “una nuova arte razionale del governo” che persegue la “conservazione politica”.

I deturpatori del vero 25 aprile

 

È diventato difficile mantenere vivi nella coscienza degli Italiani il significato e la consapevolezza della Liberazione.

Anno dopo anno diventano sempre più forti le voci che deturpano la verità. Hanno cominciato col dirci che la lotta di liberazione è stata una guerra civile, Italiani contro Italiani, che ci furono crimini e crudeltà da una parte e dall’altra, che anche i repubblichini avevano ideali, e amavano la patria. Perdoniamo, dimentichiamo tutto è l’invito che abbiamo ascoltato tante volte.

Soldi, fede e affari: era Machiavelli




Nei tempi bui, i classici del pensiero politico hanno sempre offerto un aiuto prezioso. Fra tutti, Niccolò Machiavelli è stato particolarmente generoso di lezioni di saggezza.
Per apprezzare il suo insegnamento è indispensabile poter leggere i suoi scritti in edizioni filologicamente impeccabili e corredate da un ottimo apparato critico. Nel caso di Machiavelli, abbiamo ora la splendida edizione diretta e coordinata da Francesco Bausi per Salerno Editore con la collaborazione di Alessio Decaria, Diletta Gamberini, Andrea Guidi, Alessandro Montevecchi, Marcello Simonetta, Carlo Varotti, Luca Boschetto e Stella Larosa.

Patria e famiglia: Mazzini scambiato per Mussolini

"Io mi considero una conservatrice e non credo che un motto mazziniano come ‘Dio, patria e famiglia’ vada a cozzare con la modernità. Significa difendere una identità. La patria, la famiglia e anche l’identità religiosa sono fondamentali, pur credendo nel valore della laicità dello Stato”, ha dichiarato l’onorevole Giorgia Meloni nel corso del dibattito televisivo con Enrico Letta.

Ma Mazzini poneva, prima della patria, l’umanità: “I vostri primi doveri, primi non per tempo ma per importanza e perché senza intendere quelli non potete compiere se non imperfettamente gli altri, sono verso l’Umanità. Avete doveri di cittadini, di figli, di sposi e di padri, doveri santi, inviolabili, dei quali vi parlerò a lungo tra poco; ma ciò che fa santi e inviolabili quei doveri, è la missione, il Dovere, che la vostra natura di uomini vi comanda. Siete padri per educare uomini al culto e allo sviluppo della Legge di Dio. Siete cittadini, avete una Patria, per potere facilmente, in una sfera limitata, col concorso di gente già stretta a voi per lingua, per tendenze, per abitudini, operare a benefizio degli uomini quanti sono e saranno, ciò che mal potreste operare perduti, voi soli e deboli, nell’immenso numero dei vostri simili. Quelli che v’insegnano morale, limitando la nozione dei vostri doveri alla famiglia o alla patria, v’insegnano, più o meno ristretto, l’egoismo, e vi conducono al male per gli altri e per voi medesimi. Patria e Famiglia sono come due circoli segnati dentro un circolo maggiore che li contiene; come due gradini d’una scala senza i quali non potreste salire più alto, ma sui quali non v’è permesso arrestarvi”. La patria e la famiglia, separate dall’ideale dell’umanità diventano convinzioni meschine, moralmente ripugnanti: “I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono com’io vi dissi, verso l’umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. Se non abbracciaste del vostro amore tutta quanta l’umana famiglia – se non confessaste la fede nella sua unità, conseguenza dell’unità di Dio, e nell’affratellamento dei Popoli che devono ridurla a fatto – se ovunque geme un vostro simile, ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide, voi non foste pronti, potendo, a soccorrere quel meschino o non vi sentiste chiamati, potendo, a combattere per risollevare gli ingannati o gli oppressi – voi tradireste la vostra legge di vita e non intendereste la religione che benedirà l’avvenire.”

La patria di Mazzini è il mezzo o leva per operare efficacemente per l’umanità, vale a dire per la libertà e la dignità di tutti i popoli. Sapeva bene che come individui possiamo fare molto poco per aiutare gli uomini e le donne di altri popoli. Possiamo tutt’al più offrire gesti di carità o scambiare favori occasionali, come buoni vicini, ma non possiamo operare insieme per fini comuni di emancipazione politica e sociale. Fra individuo e umanità, è necessario che ci sia un medium e tale medium sono le libere patrie. Esse sono i mezzi che Dio ha disegnato per realizzare lo sviluppo dell’umanità. Per Mazzini bisogna dunque cominciare dalla nostra patria, ma avere come fine l’umanità, intesa come fratellanza dei popoli senza imperi, senza colonie, senza padroni, senza servi. Separato dal principio dell’umanità, il concetto di patria non ha più nulla, assolutamente nulla in comune con l’idea mazziniana. Diventa nazionalismo. Mazzini lo sapeva benissimo quando scriveva che se si dimentica il principio che “la libertà di un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà”, l’idea di nazione degenera in “gretto, geloso, ostile” nazionalismo. Proprio perché nazionalista, l’idea di patria separata dall’umanità diventò parte integrante dell’ideologia fascista. Il patriottismo mazziniano, spiegava Giovanni Gentile nel 1936, aveva il grave limite di coltivare l’idea di “una federazione di popoli e un’astratta umanità (…), affratellatrice di popoli”. Il fascismo, afferma Gentile, nasce invece “da un’esperienza che è in diretto contrasto con quella visione escatologica del Mazzini”. Vuole un’Italia decisa a farsi valere “nel campo delle competizioni internazionali dove la forza e la vitalità delle nazioni sono messe alla prova”. Chi non capisce e non accoglie come principio morale e politico l’idea di patria quale mezzo per promuovere l’ideale dell’umanità non è erede di Mazzini. È erede di Mussolini, come si è proclamato con orgoglio il senatore Ignazio La Russa, sodale dell’onorevole Giorgia Meloni.


 

Per governare l'Italia devi spegnere la fiamma

Ha ragione Antonio Padellaro a sostenere (Il Fatto24 luglio) che la premier in doppio pectore Giorgia Meloni “dovrà anche regolare i conti, e in modo definitivo, con tutta la galassia fascistissima che, da Forza Nuova a Casa Pound, non vede l’ora di sedersi al tavolo dei vincitori”. Fino a quando non romperà senza ambiguità con il fascismo e con i neofascisti, l’onorevole Meloni non ha la legittimità morale per governare la nostra Repubblica.