Perfino l’Italia di Machiavelli era meno corrotta di questa



Per celebrare l’acquisizione del fondo librario di Carlo Dionisotti, (Torino 1908-Londra 1998), che le figlie, grazie alla saggia intercessione di Carlo Ossola, hanno generosamente donato alla Biblioteca dell’Università della Svizzera Italiana, l’Istituto di Studi Italiani, in collaborazione con la Rete Due della radio ticinese, promuove un ciclo d’incontri (retedue@rsi.ch) che si concluderanno il 31 ottobre con la presentazione ufficiale  del Fondo Dionisotti. La giovane Università della Svizzera Italiana guadagna un notevole patrimonio librario; e le vecchie università italiane perdono una preziosa occasione per mettere a disposizione degli studiosi i libri di uno dei maestri del Novecento.

Occasione della bella iniziativa luganese è il cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Geografia e storia della letteratura italiana (Torino, Einaudi, 1967) l’opera in cui Dionisotti ha ricostruito in maniera insuperata la varietà delle tradizioni medievali e rinascimentali diventate poi patrimonio della civiltà europea. Ma la comunità intellettuale internazionale conosce Carlo Dionisotti anche per gli studi raccolti nel volume Machiavellerie (Einaudi, 1980), che si apre con una frase diventata celebre: “Il grande Machiavelli fu anche mariolo”, soltanto che le machiavellerie sono diventate il pane quotidiano di noi italiani, il pane che ci aiuta a vivere, ma “di stretta misura”, “a beneplacito altrui”. “Giorno verrà, scriveva Dionisotti, in cui capiremo e metteremo in pratica la lezione del grande Machiavelli, dopo esserci per secoli trastullati con le machiavellerie”.
Quando Dionisotti si avvicinò a Machiavelli, dominava nella cultura italiana l’interpretazione del Segretario fiorentino come teorico della forza intesa quale principio supremo dell’azione politica. Se teniamo presente che questo era il Machiavelli in voga negli anni 30’e ‘40, s’intende bene il sapore delle parole che Dionisotti scrive nel 1969: “così per Machiavelli come per Dante, non è stato facile agli studiosi italiani della mia generazione, nella prima metà di questo secolo, vincere il fastidio che la superstizione e il fanatismo dell’ideologia allora di moda avevano addensato” sui testi di Machiavelli. Intendiamo bene anche il significato di quelle, ancora più penetranti, che consegna all’‘Epilogo’ delle Machiavellerie: “Machiavelli non fu un autore dei miei anni migliori. Mi pareva allora, nella prima metà del secolo, che sull’immagine di lui stingesse quel repellente machiavellismo che la crisi politica dell’Europa aveva riesumato e rimesso di moda”. (p. 445)
Al Machiavelli tutto forza e inganno e brama di dominio, Dionisotti non oppose un Machiavelli “buon cristiano, lieto, semplice, alla mano, incapace di far male a una mosca” che ebbe la cattiva sorte di servire uomini in maggioranza buoni come lui ma insipienti e inetti, votati alla catastrofe. (pp. 26-27). Concentra piuttosto l’attenzione sulle pagine meno luminose e ambigue della vita di Machiavelli, come la vicenda dell’assunzione di Don Micheletto, lo strangolatore che era stato al servizio del Duca Valentino. Ma Dionisotti rivela anche che Machiavelli era un fior di galantuomo. Prova ne è la lettera che scrive al Vettori, il 10 dicembre 1513, dove spiega che, se accogliesse il suo invito ad andarlo a trovare a Roma, si sentirebbe moralmente obbligato a far visita ai Soderini, visita che gli avrebbe precluso ogni possibilità di essere impiegato dai Medici, i nuovi signori di Firenze, già molto mal disposti nei suoi confronti, e forse procurato guai ancora peggiori: “Dubiterei che alla tornata mia [a Firenze], io non credessi scavalcare a casa e scavalcassi nel Bargello”. Queste parole di Machiavelli, sono uno di quei rapidi tratti, commenta Dionisotti, “affilati dall’arguzia, dall’odio e dal disprezzo, per cui Machiavelli, dopo quattro secoli, è tornato a esserci spirito fraterno nella nostra guerra civile.” Spirito fraterno, perché Machiavelli amava la libertà della sua patria, come l’amavano Dionisotti e i suoi compagni nella lotta antifascista.
Grazie al suo metodo filologico, Dionisotti ci ha lasciato veri e propri tesori di finezza interpretativa. Sono spesso accenni che indicano strade ancora tutte da percorrere, come l’annotazione sulla “profetica solitudine, impossibile a sostenersi del Principe” (p. 257); o l’osservazione che Machiavelli non fu né piagnone (sostenitore di Savonarola) né mediceo, ma crebbe “nell’ombra dell’opposizione e della minoranza civile, non soltanto sotto il regime mediceo, ma anche e più sotto il predominio del Savonarola” e “non mutò mai la sua posizione politica originaria.” (pp. 230-31); o la considerazione che Machiavelli sbagliava “perché era incline a far conto degli altri come di sé, a immaginarli più simili a sé di quanto fossero”, vale a dire capaci di passioni generose. (p. 393)
Guidava e sosteneva il rigore intellettuale di Dionisotti l’amor di patria nel suo significato più alto, quello stesso che animava i militanti di ‘Giustizia e Libertà’. Lavorò tutta la vita per liberare i testi del passato dalle incrostazioni ideologiche, o dalle cattive interpretazioni che nascevano dalla pigrizia degli studiosi, perché vedeva nelle une e nelle altre il tratto inconfondibile di quella furbizia italiana che detestava: “la furberia, spregevole anche linguisticamente in altri paesi, come era nel nostro fino al Cinquecento, onde il gergo furbesco, è stata poi da noi riabilitata nei secoli della servitù e della miseria.” (pp. 47- 48) Con il bel risultato che, grazie ai furbi, e a chi li tollera, l’Italia è forse ancora più corrotta di quanto lo fosse ai tempi di Machiavelli.

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