Velia Titta, vedova contro il regime


Il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti fu rapito e ucciso da sicari fascisti sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Aveva 39 anni. Velia [Velia Titta, moglie di Giacomo], che aveva 34 anni, restò sola. La sua fu la solitudine di chi aveva perso tutto.

Cercò di dare un senso a quel sacrificio, ma vide negati intorno a sé ogni desiderio di giustizia e ogni illusione di pacificazione tra gli italiani. Presto si rifugiò in un’introspezione senza speranza, cercando di educare i figli all’esempio paterno. Quando il fascismo divenne regime, Velia sperimentò sulla sua pelle lo Stato di polizia, e fu sottoposta a un controllo ossessivo e vessatorio di ogni movimento e di ogni frequentazione, in una sorta di vita sotto assedio. Si voleva ostacolare qualunque contatto con l’antifascismo e si temeva che la famiglia Matteotti potesse espatriare, portando all’estero coloro che rappresentavano la continuità del nome e del simbolo. Ma Velia, che era vissuta sempre lontana dagli ambienti del socialismo militante, non poteva immaginare per sé e per i suoi figli una vita da esuli politici. Negli ultimi anni, la sua casa fu infestata da delatori che, facendo leva sulla sua prostrazione e sul rischio che la rovina economica potesse compromettere il futuro dei figli, la spinsero a chiedere un aiuto al regime, che così si adoperò per avvelenare la memoria di Matteotti dopo averne voluto la morte. Velia, senza poter vedere l’Italia libera, morì il 5 giugno 1938”.

Questo passo tratto dalla bella introduzione di Fernando Venturini a Il Giaki e il Chini. Cronache della vita di Giacomo Matteotti e Velia Titta, (Verona, Casa Museo Giacomo Matteotti, Cierre edizioni, 2024) ci fa capire bene l’orrore di un assassinio che rivelò la vera natura del fascismo. Ci permette di cogliere la vita interiore di Giacomo Matteotti nascosta dietro la “maschera rigida” del militante e del dirigente socialista che aveva scelto di dedicare la vita all’emancipazione sociale e morale delle classi povere del suo Polesine e dell’Italia. La vita “è lotta, speranza”, scrive Giacomo a Velia nel 1912. Ma deve comprendere anche l’amore: “Anch’io voglio sentire tutta intera la gioia d’abbandonare la mia testa fra le Sue mani, come quel giorno, sì, che risalivamo dal campo delle fragole”. Il sentimento deve essere “frutto vivo”, “effetto vitale”, diventare forza operante nella storia per la giustizia, libera da ogni ristrettezza ideologica.

Matteotti vorrebbe dedicare la vita agli studi e all’impegno politico. Quando si rende conto che non può perseguire gli uni e l’altro, sceglie il secondo. È una scelta dolorosa: “E non so rinunziare a nessuna; comincio appena adesso talvolta, per es[esempio] dal libraio, a dire: no, di questo non posso ormai più occuparmi nella mia vita; è meglio lasciarlo definitivamente – e mi stringe l’anima. Vorrei avere dieci vite; e una ne darei anche all’ozio, al sogno, perché essa soltanto potrebbe bene riassumere le altre nove in ciò che compirono, prepararle in ciò che intraprendono” [marzo 1914]. La spinta decisiva verso la militanza gli viene dall’entrata in guerra dell’Italia. La sua condanna è sferzante: “Doveva finire così. Cioè doveva cominciare così: la povera bestia doveva andare al mattatoio gridando qualcosa, le bandierine multicolori infisse sul capo, e i battimani sollazzevoli della studentaglia in calzoni semicorti. [...] Orsù lavoratori, che fate? Levatevi il cappello, passa la patria e oramai più non ci sono i socialisti; passa la rovina, passa la guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata ”.

L’amore per la giustizia spinge Matteotti ad abbracciare gli ideali del socialismo riformista; l’am or e per la libertà a ripudiare il comunismo. Diffida soprattutto della dittatura del proletariato. “Si intende con essa [dittatura del proletariato] la prevalenza dei lavoratori sui capitalisti, e quindi l’azione del proletariato per privare la borghesia del potere della proprietà? E noi siamo per quella, per quella noi sempre combattemmo. O non si intende piuttosto una specie di potere autocratico che si istituisce, formato da pochi che comandano, in nome sì del proletariato, ma senza la effettiva partecipazione cosciente di questo? E allora la “dittatura” non troppo differisce da quel Governo degli Czar illuminati che si posero contro la nobiltà feudale in favore dei lavoratori: e non troppo ci allontaneremo dai pericoli che pochi anni fa scontammo col feticcio rivoluzionario mussoliniano” [Verso il congresso socialista, ‘La Lotta’, 23.8.1919]. Nel 1921, in un discorso alla Camera, ribadì che il suo socialismo era, come per molti giovani della sua generazione, ideale di “civiltà e di redenzione insieme delle nostre plebi agricole”, non dittatura di un partito.

Il 10 marzo 1921 interviene alla Camera per denunciare le violenze fasciste nel Polesine. Le sue parole sono un documento agghiacciante della viltà e della ferocia dei fascisti. “Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camions di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti; arrivano accompagnati naturalmente dai capi dell’agraria locale, sempre guidati da essi, poiché altrimenti non sarebbe possibile conoscere nell’oscurità in mezzo alla campagna sperduta la casetta del capolega o il piccolo miserello ufficio di collocamento. Si presentano davanti a una casetta e si sente l’ordine: circondate la casa. Sono venti, sono cento persone armate di fucili e di rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si intima di discendere. Se il capolega non discende gli si dice: se non scendi ti bruciamo la casa, tua moglie, i tuoi figliuoli. Il capolega discende, se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili, fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato a un albero! Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immediato che si consuma nel cuore della notte, cento contro uno. Questo è il sistema nel Polesine”. Il 30 maggio 1924 parla ancora alla Camera per condannare le intimidazioni e le aggressioni fasciste durante la campagna elettorale per le elezioni politiche. È il suo ultimo intervento.

Velia è una donna finita. “Il mio dolore non ha tregua –dichiara in un’intervista a Il Mondo del 27 luglio – perché io vivevo alla Sua ombra, in Lui, di Lui. Non mi son mai interessata di sapere quale fosse la sua posizione politica; lo sapevo intelligente, lo sapevo studioso, ma lo sapevo sopra tutto buono. Era il padre e l’amico de’ suoi figli, con i quali si confondeva nei giochi infantili; per me era il marito, l’amico, il confortatore, tutto! Con sé ha portato tutta la mia esistenza”. Trovò la forza di crescere i figli. Cercò, senza riuscirci, di difendere il patrimonio di famiglia dalle spie che il regime le mise in casa. Si spense a Roma, per i postumi di un impegnativo intervento chirurgico, nella Clinica delle suore di S. Elisabetta, in via dell’Olmata. La sua salma giace nella cripta del piccolo cimitero di Fratta Polesine accanto a quelle di Giaki e dei figli.

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