Dal Duce alla Dc, la ragion di Stato è antidemocratica.

 

“Possibile che siate tutti d’accordo, nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese (?). Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti”. Con queste parole, scritte dalla “prigione del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le Brigate rosse, Aldo Moro, presidente della Dc, indicava nella “presunta ragion di Stato” il principio di azione politica che, fatto proprio dai dirigenti del suo partito, escludeva ogni soluzione umanitaria o di compromesso e lo condannava a morte. Moro esortava invece i dirigenti della Dc a “contemperare ragioni umane e morali”e spiegava che con la loro “inerzia, insensibilità e rispetto cieco della ragion di Stato”, essi reintroducevano di fatto la pena di morte in Italia. A commento di queste drammatiche parole di Moro, Gianfranco Borrelli, nel suo importante saggio Repubblica, ragion di Stato, Democrazia cristiana (Cronopio) osserva che Moro si appellava alla “buona ragion di Stato” che difende le libertà politiche, civili e sociali, contro la “cattiva ragion di Stato”che sacrifica la vita di un uomo in nome dell’interesse supremo dello Stato. Ha ragione Borrelli quando sostiene che la dottrina della ragion di Stato non ha soltanto autorizzato “a stravolgere ogni genere di norma”per difendere l’interesse dello Stato, ma è stata anche “una nuova arte razionale del governo” che persegue la “conservazione politica”.

Vale la pena di ricordare che il concetto di ragion di Stato nasce in Italia agli albori dell’età moderna per giustificare la deroga ai principi della morale cristiana e alle norme del diritto civile e del diritto internazionale in nome della necessità, vera o presunta, di salvare lo Stato dalla sedizione interna o dalla conquista esterna. Il luogo di nascita è il Dialogo del reggimento di Firenze che Francesco Guicciardini scrive fra il 1521 e il 1526. Il protagonista del dialogo invoca la “ragione e uso degli Stati” per giustificare la violazione delle leggi internazionali perpetrato dai genovesi quando, dopo la battaglia navale della Meloria contro Pisa (1284), lasciarono morire in carcere i prigionieri di guerra. Il testo di Guicciardini venne pubblicato solo nell’800. La diffusione del concetto di ragion di Stato nel pensiero politico inizia con il libro di Giovanni Botero, Della ragion di Stato (1589), dove leggiamo che lo Stato è un “dominio fermo sopra i popoli” e che ragione di Stato è “notitia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un dominio”.

Borrelli dimostra che nella storia italiana la ragion di Stato è stata invocata per legittimare la violazioni delle leggi civili. A commento del libro di Napoleone Colajanni, L’Italia del 1898. Tumulti e reazione, Borrelli giustamente annota: “La depressione economica, le insostenibili spese militari per l’espansione coloniale, lo scandalo politico-finanziario della Banca romana che coinvolge i maggiori protagonisti del governo: tutto questo contribuisce a produrre sollevazioni popolari ovunque nel Paese. Interviene allora l’utilizzo del dispositivo estremo di ragion di Stato, l’esercizio violento della forza per contrastare le manifestazioni del dissenso di massa, praticato attraverso la proclamazione esplicita della volontà reale di ricorrere allo stato d’assedio”. Ma è con i governi di Mussolini che la ragion di Stato celebra i suoi massimi trionfi. Il potere esercitato “dal duce e dalla sua corte politica è insieme arbitrario e discrezionale... In questo senso il fascismo costituisce la compiuta moderna trasfigurazione della ragion di Stato”. Anche i regimi liberali e democratici possono trovarsi nella necessità di ricorrere alla ragion di Stato per difendersi da movimenti eversivi. Tuttavia, per la sua origine, il suo significato e la sua storia, la ragion di Stato è spesso incompatibile con i principi e la vita ordinaria di una repubblica democratica che ha per fine supremo la tutela dei diritti fondamentali della persona.

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