Nel
pantheon dei nostri maestri dimenticati,
spetta di diritto un posto a Ernesto Rossi. Chi voglia conoscere le
ragioni della sua denuncia delle collusioni fra Vaticano e regime fascista,
legga Il manganello e l’aspersorio
(1958); chi voglia documentarsi sull’alleanza fra il fascismo e i “grandi
baroni dell’industria”, legga I padroni
del vapore (1955); chi voglia gustare un esempio di polemica contro la
corruzione, legga Settimo: non rubare
(1953); chi invece cerca una risposta al problema della povertà legga, Abolire la miseria (1946). Ma per capire
da dove scaturiscono la sua grandezza d’animo, il suo coraggio civile e il suo rigore
intellettuale, sono da leggere le lettere degli anni del carcere e del
confino.
Il
principio che guida le scelte di Ernesto Rossi è la religione del dovere,
vissuta non come obbedienza ad un principio astratto, ma come devozione ad una
voce interiore da ascoltare e seguire semplicemente perché è la nostra voce. Non ascoltarla o non
seguirla vuol dire per Rossi rinunciare ad essere sé stesso: “Non posso
chiedermi se non ‘sarebbe meglio pensare a noi stessi senza interessarci di
nulla’, perché non posso ‘pensare a me’ senza interessarmi a tutte quelle
questioni in cui mi sembra d’avere una parola da dire, e che sia mio dovere
dirla. Io non ho mai tenuto fuori di me il motore primo delle mie azioni. Anzi,
mi sembra perfino inconcepibile che qualcuno faccia qualcosa ‘per gli altri’.
Quel che faccio lo faccio per me, per essere in pace con la mia coscienza. Se
desidero alleviar le sofferenze degli altri, dare agli altri una maggior
dignità di vita, è perché le loro sofferenze mi fanno pena, le sento come mie,
e la loro abiezione, il loro abbruttimento m’offendono: sento in loro offesa la
mia umanità. Finché son press’a poco quel che sono, non mi sarebbe possibile
agire come se fossi diverso”.
La
sua religione del dovere non ha bisogno del Dio della rivelazione. In una bella
lettera alla madre Elvira scrive: “I giansenisti dicevano ‘credere in Dio, ma
agire come se non ci fosse’. La loro massima aveva un alto significato contro
la morale gesuitica, basata sulla paura dell’inferno e l’aspettativa di una
ricompensa. Io direi piuttosto: ‘non credere in Dio, ma agire come se ci
fosse’. Come se ci fosse, beninteso, un Dio, non nel senso cattolico, ma nel
senso d’una spiegazione, superiore alla nostra intelligenza, di quel che
vediamo nel mondo. A noi, uomini, spetta fare il meno peggio che possiamo la
nostra parte d’uomini”.
Non
sente il bisogno della speranza cristiana neppure quando, in guerra, dov’è
andato volontario, vede la morte da vicino: “ed anche quando sono stato in
punto di morte, […]non ho sentito affatto il bisogno dell’illusione religiosa.
Mi ricordo che vicino al mio letto c’era un tenente ferito pure gravemente, che
si lamentava di continuo perché non voleva morire. Venne il cappellano, lo
confortò e lo convinse a prendere i sacramenti. Poi mi domandò se volevo
prenderli anch’io. Lo ringraziai dicendogli che non ne avevo bisogno. Il mio
vicino di letto morì durante la notte, dopo aver riacquistato la serenità nella
speranza, e certo fu per lui un gran dono. Ma a me quella speranza non era
necessaria: mi sentivo andar via piano, piano, senza alcuna preoccupazione di
quel che sarebbe poi stato. Finire è un pensiero consolante, quando si conosce
cos’è la vita, e basterebbe tener sempre presente questo pensiero per aver
nella vita valori meno meschini di quelli che comunemente si hanno”.
Non
ha pazienza per i filosofi che trovano nella Storia o nella Provvidenza la
risposta a tutte le domande della condizione umana. Ammira invece le persone
semplici che sanno vivere con dignità morale, come il tramviere anarchico
Giuseppe Papini, suo compagno di cella. Rossi lo descrive come un”puro di
cuore”, uno di quegli uomini che bisogna avere la fortuna di incontrare ogni
tanto “per non disperare completamente dell’umanità”. Non ho mai sentito altri,
scrive, “che avesse una così benevola indulgenza verso le debolezze umane che
cercava sempre di capire piuttosto che di condannare”. Era solito dire: “‘Non
basta chiedere a Domineddio che ci dia il nostro pane quotidiano. Bisogna
chiedere: dacci il nostro pane quotidiano, ma
senza infamia”.
Come
tutte le persone che hanno un sincero sentimento religioso e amano la libertà, detesta
la politica del Vaticano: “pochi italiani conoscono quale centro di
coordinamento e di guida delle forze più reazionarie è il Vaticano, e quale
fattore di corruzione esso costituisce nella nostra vita pubblica, con la sua
morale gesuitica, con la continua pratica del doppio gioco, con l’insegnamento
della cieca obbedienza ai governanti, comunque delinquenti e in qualsiasi modo
arrivati al potere, purché prestino l’ossequio dovuto al Santo Padre”; e
lancia, nel 1958 l’appello a ritrovare
le tradizioni migliori del Risorgimento: “dobbiamo lottare contro la politica del
Vaticano con la stessa decisione e la medesima spregiudicatezza con la quale i
patrioti del Risorgimento, anche se ferventi cattolici, lottarono per costruire
l’unità italiana”. (Il manganello e
l’aspersorio).
Sapeva
bene che lottare contro il regime fascista negli anni ’30 era un’impresa
disperata. Mussolini poteva contare su un formidabile apparato repressivo, sul
sostegno della monarchia e del Vaticano, sul consenso di milioni di italiani
infatuati dalle prospettive di grandezza imperiale. Eppure si impegna nella
lotta antifascista con assoluta intransigenza, per la semplice ragione che il
suo senso del dovere comandava di farlo.
In
un paese infestato di servi, la persona libera che obbedisce soltanto alla
propria coscienza può essere soffocata con la forza o umiliata con lo scherno,
ma non sconfitta: “qualunque sia la situazione politica avvenire, noi siamo
destinati a buscarne finché viviamo. È una facile profezia. [...] Conosco ormai
troppo bene gli italiani e la loro storia per farmi illusioni. Cavour fu un
inglese, nato per sbaglio in un paese balcanico. E non si cambiano in due o tre
generazioni le caratteristiche d’ un popolo abituato per secoli a liberarsi col
confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a
rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri ad ogni dignità di vita sociale.[…]
La forza può avere ragione di noi individualmente, ma mantenerci fedeli a noi
stessi vuol dire trasmettere alle generazioni avvenire, con l’esempio che vale
più della parola, quella che riteniamo la parte più luminosa del pensiero
ereditato dalle generazioni passate, cioè quel che fa sì che l’uomo sia
veramente uomo: la libertà”.
Aggiungo a
queste parole una postilla, tratta da un lettera del gennaio 1932 : “non occorre credere che debba raccogliere la
stessa persona che ha seminato". Non saprei immaginare una lezione migliore per
questo tempo in cui domina, ormai, la convinzione che è
del tutto insensato vivere per un’idea.
Abolire la miseria,
Laterza, Bari 1977; Settimo:
non rubare, Laterza, 1953; Il
Malgoverno, Laterza, 1954; I padroni del vapore, Laterza,
1955; Il manganello e l'aspersorio, Parenti, 1958; Elogio
della galera: lettere dal carcere 1930-1943, Laterza, 1968; Ernesto Rossi, “Nove anni
sono molti”: lettere dal carcere 1930-1939, a cura di Mimmo Franzinelli,
Bollati Boringhieri, 2001.
Bio
Ernesto
Rossi nasce a Caserta il 25 agosto 1897, quarto di sette figli, da Antonio,
piemontese, ufficiale dell’esercito, e da Elide Verdardi (1870-1957), di
origine bolognese, che ebbe un’ importante e positiva funzione
nell’educazione del figlio. Il 12 marzo 1916, quando non aveva ancora compiuto
i diciannove anni, è volontario nella Grande Guerra dove riporta gravi ferite. Per
la sua attività antifascista è arrestato il 30 ottobre 1930 e condannato a
vent’anni di carcere. Nel 1931, nella prigione di Pallanza, sposa con rito civile
la fidanzata Ada Rossi. Partecipa alla stesura del Manifesto di Ventotene per l’unità europea e nel 1943 aderisce al
Partito d’Azione. Dal 1949al 1962 collabora attivamente a Mondo di Mario Pannunzio. Con Leo Valiani fonda nel 1955 il Partito
Radicale.
La grande lezione di Ernesto Rossi nella mirabile sintesi di Maurizio Viroli: all'insegna della laica religione del dovere per vivere "come se Dio ci fosse"...
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