Di Piero Calamandrei, uno dei più insigni dei nostri
maestri dimenticati, Norberto Bobbio ci ha lasciato un ricordo che raccchiude il
tratto fondamentale della sua vita e della sua opera: “Il significato profondo della vita di Calamandrei, ciò che rese la sua
figura umana così affascinante, si può riassumere brevemente in queste parole: passione e lotta per la giustizia. Combatté per la giustizia come
giurista, come avvocato, come riformatore di leggi, come scrittore politico,
come uomo politico, in genere come uomo di cultura”.
L’amore per la giustizia è il cuore della sua
religione laica. Nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, che esce a Firenze nel 1935, Calamandrei avvicina il giudice al sacerdote e
sottolinea che l’uno e l’altro non possono assolvere bene il loro difficile ufficio
se non li sorregge un senso religioso del dovere: “ Il giudice che si abitua a render giustizia è come il
sacerdote che si abitua a dir messa. Felice quel vecchio parroco di campagna
che fino all'ultimo giorno prova, nell'appressarsi all'altare col vacillante
passo senile, quel sacro turbamento che ve lo accompagnò prete novello alla sua
prima messa; felice quel magistrato che, fino al giorno che precede i limiti di
età, prova, nel giudicare, quel senso quasi religioso di costernazione, che lo
fece tremare cinquant'anni prima, quando, pretore di prima nomina, dové
pronunciare la sua prima sentenza.”
Esorta i giudici a non dimenticare che la vera giustizia non schiaccia gli
esseri umani, ma li protegge e li aiuta a vivere con dignità al riparo dai
soprusi, dalle umiliazioni, da ogni forma di arbitrio. Da quel fine scrittore
che è, Calamandrei spiega questo concetto con un’immagine di rara bellezza: “accade
spesso al bibliofilo, che si diverte a sfogliare religiosamente le pagine
ingiallite di qualche prezioso incunabolo, di trovarvi tra pagina e pagina,
appiccicata e quasi assorbita dalla carta, la spoglia diventata trasparente di
una farfallina incauta, che qualche secolo fa, in cerca di sole, si posò viva
su quel libro aperto, e quando il lettore all'improvviso lo rinchiuse, vi restò
schiacciata e disseccata per sempre. Questa immagine mi viene in mente quando
sfoglio gli incartamenti di qualche vecchio processo, civile o penale, che dura
da diecine d'anni. I giudici, che tengono con indifferenza quegli incartamenti
in attesa sul loro tavolino, sembra che non si ricordino che tra quelle pagine si trovano, schiacciati e
inariditi, i resti di tanti poveri insettucci umani, rimasti presi dentro il
pesante libro della giustizia”.
Calamandrei nasce a Firenze nel 1889, e nel 1915 diventa professore di
diritto processuale civile all’Università di Messina. Va in guerra volontario
con il grado di sottotenente e per il suo valore è promosso capitano e decorato
con la croce di guerra. Prende le difese di otto soldati accusati di aver
abbandonato il posto di combattimento e riesce ad ottenere per loro una
sentenza mite. Negli anni del dopoguerra torna agli studi e pubblica le sue
opere fondamentali di argomento giuridico, tutte ispirate a quella che rimarrà
la sua preoccupazione fondamentale come studioso di diritto e avvocato, vale a
dire la certezza del diritto intesa quale garanzia fondamentale di libertà. L’assalto
fascista allo stato liberale gli impone di alzare la testa dai libri: nel 1920
è fra i fondatori del Circolo di Cultura di Firenze, devastato dagli squadristi
il 31 dicembre del 1924. Firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti di
Benedetto Croce. Nel 1941 aderisce al movimento ‘Giustizia e Libertà’, e nel
1942 è fra i fondatori del Partito d’Azione.
Durante gli anni della guerra, dal 1939 al 1945, tiene un diario che ci
rivela la sua angoscia per le sorti della civiltà minacciata dai totalitarismi
e la fede sincera nell’ideale della patria intesa, con Mazzini, come ideale di
libertà. In nome di quell’ideale annota l’11 aprile 1940 che gli inglesi e i
francesi e i norvegesi che resistono a Hitler, “sono ora la mia patria”. E in
nome del medesimo ideale scrive, il 1 agosto 1943, “veramente la sensazione che
si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa
frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di
comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con
uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria, questo senso di
vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono
di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione
diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è
più dentro. Ah, che respiro!”
Nel libro dei ricordi giovanili, Inventario della casa di campagna, del 1941, Calamandrei scrive a
proposito della relazione fra padre e figlio una pagina memorabile: “padre e
figlio, finché vivono, marciano uno dietro l'altro sullo stesso sentiero, a
distanza di una generazione: finché son vivi e camminano, non possono né
avvicinarsi né guardarsi in faccia: solo quando il padre si ferma nella morte,
la distanza comincia a diminuire. Allora egli si riposa, e si volge indietro ad
aspettare il suo figliuolo che sale: e il figlio può finalmente vedere il volto
del suo babbo e riconoscersi in lui sempre meglio via via che la distanza
decresce. Egli si è riposato, e si è voltato indietro ad aspettare. Ora tocca a
noi salire e riconoscerci in lui. Se saremo riusciti ad avvicinarci a lui, non
saremo più soli”.
Calamandrei è un maestro che si è fermato e ci aspetta. Da ciò che egli ci
ha lasciato noi dobbiamo trarre le ragioni e la forza per affrontare le lotte
del nostro tempo. Fra tutti i suoi consigli i più preziosi sono quelli che
troviamo negli scritti dei suoi ultimi anni sulla Costituzione raccolti nel
volume La Costituzione e le leggi per
attuarla, del 1955, che avreppe potuto intitolarsi, scrive Calamandrei, La
Costituzione inattuata, o, ancor più esattamente: Come si fa a disfare
una Costituzione. Al processo contro Danilo Dolci, accusato di aver fomentato manifestazioni
per il lavoro in Sicilia, Calamandrei, pochi mesi prima di morire, rivolge ai
giudici queste parole: “Voi
dovete aiutarci, signori giudici, a difendere questa Costituzione che è costata
tanto sangue e tanto dolore; voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che
si traduca in realtà. Vedete, in quest'aula, in questo momento non ci sono più
giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani:
uomini di questo Paese che è finalmente riuscito ad avere una Costituzione che
promette libertà e giustizia». Tocca a noi raccogliere questa esortazione e
fare ciò che possiamo per impedire la devastazione della Costituzione che si
consuma proprio in questi giorni. E dobbiamo farlo anche per lui.
Biblio
Il fascismo come regime della
menzogna, Roma-Bari, Laterza, 2104.
Uomini e città della
Resistenza: discorsi, scritti ed epigrafi, Roma-Bari,
Laterza, 2011.
Elogio dei giudici scritto da
un avvocato, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995.
Bio
Nasce a Firenze nel 1889, e nel 1915 diventa professore di diritto processuale
civile all’Università di Messina. Va in guerra volontario con il grado di
sottotenente e per i suo valore è premiato con il la promozione al grado di
capitano e la croce di guerra. Negli anni del dopoguerra torna agli studi
giuridici e pubblica una delle sue opere fondamentali: La Cassazione civile (Torino 1920), ispirata a quella che rimarrà
la sua preoccupazione fondamentale come studioso di diritto e avvocato, vale a
dire la certezza del diritto. L’assalto fascista allo stato liberale gli impone
di alzare la testa dai libri: nel 1920 è fra i fondatori del Circolo di Cultura
di Firenze, distrutto dagli squadristi il 31 dicembre 1924. Con i fratelli
Rosselli, Gaetano Salvemini, Nello Traquandi e Ernesto Rossi partecipa
attivamente alla breve stagione del giornale clandestino Non mollare!. Firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti
di Benedetto Croce. Nel 1941 aderisce al movimento ‘Giustizia e Libertà’ e nel
1942 è fra i fondatori del Partito d’Azione. Eletto all’Assemblea Costituente,
si distingue per gli interventi in difesa dei diritti sociali, per
l’istituzione della Corte Costituzionale e contro l’inserimento dei Patti
Lateranensi nella Costituzione. Dedica gli ultimi anni della vita a mantenere
viva la memoria della Resistenza e a difendere la Costituzione dagli attacchi
di chi voleva stravolgerla o impedirne l’attuazione. Muore a Firenze il 27
settembre 1956.
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