Prima di Donald Trump i cittadini americani non avevano mai eletto un demagogo presidente della repubblica. Lo sostiene Jeffrey Tulis in The Rhetorical Presidency che Princeton University Press ha di recente ripubblicato nella collana dedicata ai libri che hanno segnato una svolta negli studi e sono particolarmente importanti nel dibattito pubblico.
L’unico demagogo che è riuscito
a diventare presidente degli Stati Uniti d’America è stato Andrew Johnson che però
non fu eletto e entrò alla Casa Bianca perché era vice-presidente di Abraham
Lincoln, assassinato il 15 aprile 1865. Durante la sua presidenza Andrew Johnson
dovette affrontare la tenace opposizione del Congresso, fu sottoposto al
procedimento di messa in stato d’accusa (impeachment) e lasciò la carica in disgrazia.
Trump ha vinto le elezioni con un largo margine di voti elettorali (non di voti
popolari), ha iniziato il suo mandato con una solida maggioranza nella Camera
dei Rappresentanti e nel Senato e ha potuto nominare un suo candidato alla
Corte Suprema.
Un presidente demagogo eletto rappresenta
una rottura radicale rispetto ai principi fondamentali della democrazia
americana. I Padri Fondatori della Costituzione degli Stati Uniti avevano
spiegato che il demagogo è il pericolo più grave per la libertà repubblicana.
Dai classici del pensiero politico antico e moderno, e dalla storia, avevano
imparato che il demagogo parla direttamente al popolo senza la mediazione dei
partiti o del Congresso e, grazie all’uso sapiente dell’adulazione, sa
persuadere il popolo toccando le sue passioni: la paura, la speranza, l’odio,
il desiderio di sentirsi superiori ad altri popoli e di essere onnipotenti. Una
volta conquistato il favore della parte più incolta e spesso più povera del
popolo, che quasi ovunque è maggioranza, concentrano nelle loro mani un potere
enorme che non sopporta limiti e condizionamenti. Coloro che hanno sedotto il
popolo con l’adulazione, leggiamo nei Federalist
Papers (1788), vero e proprio
commentario alla Costituzione degli Stati Uniti, hanno cominciato come
demagoghi e sono diventati tiranni (“commencing demagogues and ending
tyrants”).
Altri presidenti americani, a
partire da Theodore Roosevelt (1901-1909) si soo rivolti direttamente al
popolo, passando sopra il Congresso e sopra il proprio partito, per fare
passare particolari provvedimenti legislativi.
Tulis definisce questo modo di usare il potere della presidenza “presidenza
retorica” e sottolinea la differenza rispetto allo stile dei presidenti che
esercitarono il loro mandato nell’Ottocento. Abraham Lincoln, per citare un
esempio significativo, ricusò di parlare dell’imminente guerra civile alla
folla che lo aveva accolto a Pittsburgh, era 15 febbraio 1861, e spiegò la sua
decisione con l’argomento che il tema richiedeva una lunga ed approfondita
discussione e riteneva prematura una sua netta presa di posizione. I cittadini
convenuti salutarono le sue parole con un immenso applauso e espressioni di
entusiastica approvazione. Ai nostri giorni un comportamento analogo da parte
del presidente degli Stati Uniti sarebbe accolto con viva disapprovazione.
Trump rappresenta un
cambiamento profondo anche rispetto alla tradizione della “presidenza retorica”.
La sua tecnica preferita è non ammettere mai gli errori commessi o le
contraddizioni nelle quali cade anche quando i suoi critici hanno prove
inoppugnabili. Se i giornalisti gli rinfacciano di aver mentito, risponde con
menzogne ancora più grandi, con la conseguenza che diventa difficile per
l’opinione pubblica capire dove sta la verità e dove sta la menzogna. Se lo
accusano di gravi illegalità, come ad esempio la famosa storia dei contatti con
i russi per vincere le elezioni presidenziali contro Hillary Clinton, risponde
che Obama ha fatto peggio. I presidenti del Novecento, e con loro George W.
Bush e Barack Obama, avevano oscillato fra la presidenza retorica e la
presidenza tradizionale che interagisce di norma con il Congresso e parla
direttamente al popolo soltanto in circostanze eccezionali o in cerimonie
solenni. Trump ha esasperato la presidenza retorica fin al punto di annullare
la differenza fra governo e campagna elettorale. “Life is a campaign” - ha detto Trump, un mese dopo il giuramento,
ai giornalisti che lo accompagnavano ad una manifestazione in Florida – e a ha
aggiunto che anche la presidenza è per lui una campagna elettorale (“is a
campaign”).
Prova dello stile demagogico di
Trump è il suo discorso inaugurale (20 gennaio 2017). Nella storia degli Stati
Uniti, il discorso inaugurale del presidente eletto segna la transizione dalla
campagna elettorale all’impegno di governo nel rispetto della Costituzione. Trump
ha invece disonorato il rito del discorso inaugurale trasformandolo in un
messaggio elettorale. Ha dichiarato di aver scritto il discorso e si è fatto
fotografare al tavolo mentre ripuliva il testo. In realtà gli autori del
discorso inaugurale erano Stephen Bannon e Stephen Miller. Il presunto testo
che Trump stava limando era in realtà un block notes bianco.
Altrettanto indicativa è la
struttura del discorso. Relativamente breve (1400 parole), è diviso in
setttantacinque paragrafi di circa centoquaranta caratteri l’uno: una sequenza
di tweets, proprio come in campagna elettorale. Nessun ragionamento, nessuna
argomentazione, nessuna analisi seria. Soltanto proclami e slogan. Con Twitter,
Trump passa sopra il Congresso e sopra i mezzi di comunicazione di massa
tradizionali per inviare direttamente al popolo, senza alcun controllo o alcuna
verifica, i suoi messaggi. Libero, grazie a Twitter, da limiti e costrizioni da
parte di altre istituzioni dello Stato, Trump rafforza il suo potere come
demagogo e impoverisce il livello
intellettuale del discorso pubblico.
La prova più evidente, e
preoccupante, della demagogia di Trump è il silenzio assordante, sempre nel
discorso inaugurale, sulla Costituzione, vero e proprio fondamento della
religione civile americana. Ha citato invece, più volte, il popolo. Ma si vede
bene che per popolo intende i suoi sostenitori, vale a dire una parte del
popolo americano. Come aveva annunciato nel maggio del 2016, suo intento è
unire il SUO popolo, il popolo che condivide le sue parole d’ordine, le sue
convinzioni, i suoi obbiettivi. Gli altri non contano
(“the other people do not mean anything”). Come,
e meglio dei grandi demagoghi, Trump non soltanto blandisce il popolo, lo
costruisce. Si è dunque realizzata, negli Stati Uniti, la transizione dalla
presidenza retorica alla presidenza demagogica.
Esiste una via d’uscita dal
dominio della demagogia? Tulis si chiede. In mancanza di una nuova e robusta
educazione civica, soltanto il buon senso dei cittadini americani, e quel che
resta della memoria storica, possono contrastare il degrado della vita
democratica negli Stati Uniti. E noi, in Italia, su quali risorse politiche e
morali possiamo sperare per sconfiggere i demagoghi nostrani che considerano Trump
il loro maestro?
Nessun commento:
Posta un commento