Ho raccontato a
ottimi colleghi italiani che da qualche anno proibisco l’uso di cellulari, tablet
e computer agli studenti che seguono le mie lezioni. Io stesso non utilizzo strumenti
elettronici in aula se non per proiettare immagini indispensabili alla lezione.
Ovviamente accade che ci siano casi eccezionali, ma eccezionali, appunto. Se uno
studente trasgredisce la regola, tolgo un punto nella valutazione finale; se
trasgredisce una seconda volta lo espello dall’aula. Naturalmente spiego bene
le regole e le ragioni delle regole durante la prima lezione e tutto è scritto
nella descrizione del corso. Nessun comportamento arbitrario da parte mia, ma
inflessibilità. Una cara collega, docente di letteratura italiana, ha sostenuto
che, invece, a suo giudizio i supporti elettronici aiutano a migliorare la
qualità della lezione. Mi ha spiegato che così gli studenti possono verificare
all’istante se le interpretazioni del docente sono corrette, possono arricchire
le analisi con altri riferimenti testuali, possono criticare le idee citando testi
diversi.
Le sue parole mi
hanno indotto a riflettere, ma resto fermo nella mia convinzione che gli
strumenti elettronici compromettono seriamente la qualità dell’insegnamento e danneggiano
gli studenti. La lezione universitaria, almeno nelle mie materie (filosofia politica,
ma credo che il discorso valga per tutte le discipline umanistiche) è un’arte
molto semplice: una persona parla e gli altri ascoltano. Quando parla il
professore gli studenti ascoltano; quando parla uno studente il professore e
gli altri studenti ascoltano. Ascoltare, ci ha insegnato Guido Calogero nell’aureo
libretto L’abbiccì della democrazia (1946), esige il rispetto di chi
parla (non ascoltiamo persone che disprezziamo), convinzione di avere qualcosa
da imparare (se fossimo certi di sapere tutto non ci sarebbe ragione di
ascoltare gli altri) e soprattutto un atteggiamento attivo e una partecipazione
attenta. Ascoltiamo davvero quando siamo presenti non solo con il corpo ma
anche con la mente e con lo spirito e quando nulla ci distrae. Tutti i sensi
devono partecipare all’ascolto e aiutare la comprensione dell’argomento trattato.
Orbene, quando
gli studenti con i loro iPhone sono collegati a tutto il mondo non sono ‘lì’;
sono ovunque, ma non lì. Quella particolare e fragile comunità che è l’aula universitaria
non esiste più. Al suo posto c’è una stanza con una persona che siede in cattedra
e parla a persone che siedono dietro a banchi. Aggiungo a questa anche un’altra
riflessione. Poiché nelle mie aule le regole sono chiare e note a tutti,
considero grave mancanza di rispetto trasgredirle sia nei miei confronti sia
nei confronti dei compagni che si attengono a quelle regole. Là dove non c’è
rispetto per il docente e per gli studenti, ancora una volta, non c’è aula
universitaria. Meglio sarebbe, per tutti, sospendere le lezioni e andare a
impiegare il proprio tempo in altro modo.
I risultati
della mia severità sono, però, confortanti. Senza iPhone e computer l’attenzione
degli studenti è intensa e continua. Posso guardarli negli occhi e capire quando
riesco a suscitare la loro curiosità, o addirittura, il loro stupore. Vedo che
si commuovono quando spiego Se questo è un uomo di Primo Levi o i
discorsi di Martin Luther King. Posso adattare la lezione alle sensibilità
degli studenti. Non paia autocelebrazione ma, con mia sorpresa, le valutazioni
di fine corso sono sempre molto positive.
Gli esseri
umani, ci insegnano i classici, sono fatti per contemplare il cielo, vale a dire
cercare il divino e l’ideale. Tratto caratteristico della persona libera è
saper guardare gli altri negli occhi; segno certo del vero vivere civile sono
uomini e donne che dialogano guardandosi. La libertà morale che consiste nell’avere
principi propri, cercati e capiti esige l’abito di guardare dentro di sé e
interrogare in silenzio la propria coscienza. Mi auguro di sbagliare, ma a me
pare che stiamo assistendo a una vera e propria trasformazione antropologica: al
posto degli esseri umani che guardano al divino e all’ideale, agli altri e in
se stessi, cresce attorno a noi il numero di persone, giovani e vecchi, con gli
occhi sempre volti in basso sull’ i-Phone, incapaci di conversazione civile,
che non sanno neppure cosa voglia dire raccoglimento interiore o porsi una
domanda morale.
La scuola in
generale, e l’università in particolare, non deve in alcun modo assecondare questa
tendenza ma combatterla con il massimo impegno. Prima ancora di insegnare nozioni,
metodi d’indagine e tecniche di varia guisa, deve cercare di ispirare l’amore
per la libertà morale, per la profondità del pensiero, per la vera
conversazione civile.
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