Non saprei dire quanti altri giovani della mia
generazione misero in soffitta Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello stato?
che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su ‘Mondoperaio’, e ripubblicò nel 1976
nel libro Quale socialismo?, ma
sospetto siano stati molti. La risposta di
Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Engels, “una vera e propria teoria
socialistica dello stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine
scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito Comunista
per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello
stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a
guidare lo stato democratico?
Messo da parte Marx cercammo altri maestri che potessero
aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra
fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo
liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del
1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una
conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria
sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon
Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di
Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare
il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione […]
Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera
di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti
e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro
incessante svilupparsi e progredire.” Rosselli capì che il Manifesto del Partito Comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché
era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo
linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la
disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899
(che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i
compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza
di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non
trovarono più nè conforto nè guida nella profezia ormai irrigidita in stanche
formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane
Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici,
elementi per una teoria dell’emancipazione sociale. La
lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843,
poi pubblicata nei Deutsch-Französische
Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di
una critica sociale e politica intransigente: ““Costruir
il futuro, scrive Marx, e trovar una ricetta valida perennemente non è affar
nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo far nel presente: la critica
radicale di tutto l'esistente.” Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei
suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta
per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di
educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della
coscienza, non con dogmi, bensì con l'analisi
della coscienza mistica, oscura a sé stessa, in qualunque modo si presenti
(religioso o politico).” L’emancipazione politica e sociale non era per il
giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di
coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia
che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si
vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza
per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra
passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come
l'umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico
lavoro”.
Nello stesso fascicolo
(l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel,dove sostiene che il
proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa
l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue
armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è
dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”.
Due illusioni nobili,
queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni. Il proletariato, allora come
oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che
nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale,
ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il
semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli
intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha
abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del
governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e
dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da
appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato
dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and
Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua
celebre critica dell’alienazione religiosa: “l'uomo
fa la religione, e non la religione l'uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza
umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà
vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale. La
miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e
la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della
creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo
spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo” Sarebbe
facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha
sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale. Ma dalla
critica alla religione Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale
e politico: la prima consiste nel principio che “l'uomo
è per l'uomo l'essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali
l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole.” Un principio e un imperativo da
riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche
la speranza, dell’emancipazione sociale.
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