Giovanni Sartori
ha messo al servizio della sua passione civile una scienza politica, ma forse
il termine più giusto sarebbe una saggezza politica, che si avvaleva di diversi
stili di pensiero: comparativo, analitico, interpretativo, storico. Grazie al
suo metodo, Sartori è stato in grado di capire bene le vicende italiane.
Che Sartori non
sia stato uno scienziato politico distaccato dai problemi del suo tempo, lo
dimostra la prefazione a Mala tempora (2004), che raccoglie articoli scritti
fra l’aprile del 1994 e il settembre del 2003: “Dio, può darsi che le mie
battaglie non valgano granché. Ma anche ammesso, in ipotesi, che siano invece ben combattute, mi sa che le perderei lo
stesso. Le perdo, oltretutto, perché non son imbrancato. E in un paese senza anticorpi
il ‘fuori branco’ resta solo: una voce fuori coro e senza coro, senza sostegno.
Ma sono oramai troppo vecchio per cambiare. A perdere sono abituato. A
sottomettermi, a piegare la schiena, non mi abituerò mai. Più i tempi vanno
male e più voglio stare dritto ”. Tenere la schiena dritta è la lezione più
necessaria di coscienza civile perché rivolta a curare il conformismo e lo
spirito servile, mali secolari dell’Italia.
Fra i suoi
attrezzi di lavoro aveva un posto d’onore il metodo comparativo seguito dai grandi
scienziati politici moderni, primo fra tutti Alexis de Tocqueville. Quando
Sartori volle capire il sistema di potere di Silvio Berlusconi, lo paragonò, accogliendo
il suggerimento del suo (e mio) editore Giuseppe Laterza, al “sultanato”: un
potere personale che domina come un padrone sui servi. “[Berlusconi] si è così dato
a costruire, all’interno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfera di
potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico)
è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispotico […] Il Cavaliere
sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina
ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di
servizio. […] Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole harem di belle
donne. Il sultanato era un po’ così” (Il sultanato, 2009)
Devo confessare
che la scelta del termine ‘sultanato’ non mi convince: troppo esotico. Preferisco
‘corte’ e ‘sistema di corte’, perché più adatto a descrivere il potere
berlusconiano e meglio radicato nella storia italiana dove è nata tanto la corte,
quanto la teoria della corte. Si pensi al libro Del Cortegiano di Messere
Baldassar Castiglione (1528). ‘Sultanato’, tuttavia, funziona per spiegare lo
spirito servile che il sistema berlusconiano ha rafforzato e diffuso, come un
cancro, in Italia: “Le cose che mi spaventano sono ormai parecchie; ma il
livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa
occasione [l’approvazione del lodo Alfano che garantiva la sospensione del
processo penale alle alte cariche dello Stato] da una maggioranza dei nostri ‘onorevoli’
(sic) mi spaventa di più di tutto”.
Uno dei termini che
gli oppositori usavano per denunciare il regime di Berlusconi era ‘dittatura’,
anche per l’assonanza con il concetto di ‘dittatura fascista’. Ma, ammoniva Sartori,
“dittatura non deve essere usato a vanvera”. Le dittature contemporanee,
precisava, sono Stati caratterizzati da “Costituzioni incostituzionali”. Stati
la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e
incontrollato del potere politico. Nessuno si dichiara più dittatore”. Costituzioni
incostituzionali sono per Sartori le costituzioni che i governanti privano delle
strutture garantistiche che proteggono i cittadini dagli abusi di potere e
danno loro la possibilità di affermare la propria libertà.
Se dittatura è
questo, si chiede Sartori, Berlusconi è un dittatore? No, non viola la
Costituzione. Ma sarebbe potuto diventarlo se fosse riuscito a realizzare la
riforma costituzionale che aveva proposto e che mirava a “depotenziare e fagocitare
i contro-poteri che lo intralciano”. Nel 2006 abbiamo respinto con il
referendum la riforma di Berlusconi e fermato la sua ascesa verso un regime
autoritario. Un anno fa abbiamo sconfitto, ancora con un referendum, il
progetto di riforma costituzionale voluto da Renzi. Come nel 2006, Sartori è
stato dalla parte del “No” perché considerava la riforma caotica e pericolosa.
La cattiva
cultura alimenta la cattiva politica, e viceversa. Anche per questo, Sartori guardava
con preoccupazione al degrado intellettuale che la televisione ha contribuito a
diffondere. Lo preoccupava, in particolare, l’ormai diffusa inettitudine a pensare
per concetti. “Tutta la nostra capacità di gestire la realtà politica, sociale
ed economica nella quale viviamo, e ancor più di sottomettere la natura all’uomo,
si impernia esclusivamente su un pensare per concetti che sono – per l’occhio
nudo – entità invisibili e inesistenti”. Mentre l’homo sapiens sa pensare anche
senza vedere, l’homo videns creato dalla televisione sa vedere ma non sa
pensare. E chi vede senza pensare può essere facile vittima dei demagoghi.
Machiavelli,
cinquecento anni fa, ammoniva a non giudicare i prîncipi “agli occhi”, ovvero
dalle apparenze, ma a cercare di intendere il significato delle loro azioni.
Sartori, fiorentino come Machiavelli, ci ha lasciato una lezione simile di
saggezza che ci può aiutare a capire i nostri tempi e a difendere la nostra
libertà.
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