Piero
Gobetti (Torino, 1 giugno 1901 – Neuilly-sur-Seine, Parigi, 15 febbraio 1926) è
stato un intransigente, questo il suo vizio capitale in un paese come l’Italia
dove i più non capiscono, o fingono di non capire, che vi sono tempi e
circostanze in cui l’intransigente è il vero realista e il fautore dell’accomodamento
è un povero illuso. Chi ha avuto ragione, alla luce della storia, quelli che
hanno cercato fino a l l’ultimo l’accordo con Mussolini nella speranza di attenuarne
le ambizioni eversive, o Piero Gobetti che fin dalla marcia su Roma chiamava
alla lotta senza quartiere?
“Di
fronte alla marcia su Roma – scriveva nel 1924 – nacquero immediatamente almeno
due antifascismi. Il primo era la resistenza dei battuti dal colpo di stato: l’antifascismo,
per intenderci, dei vecchi democratici e liberali che erano stati ministri o
ministeriali nel dopoguerra e dei filofascisti delusi. [...] Essi non sentivano
una repugnanza di natura verso i vincitori, erano assolutamente alieni dal
lavorare per un’altra generazione, provavano soprattutto ira e dispetto perché
i loro calcoli erano stati sventati e si vedevano sfuggir di mano il potere.
[...] Non si trattava di oppositori, ma di disorientati. Nessuno si rendeva ragione
della situazione storica che veniva a sboccare nel fascismo, si illudevano di
trovarsi di fronte ad un fenomeno passeggero, che si poteva vincere con l’astuzia,
con cui era opportuno trattare, collaborare, mettere delle pregiudiziali per
negoziarle”. Nessuno dei così detti democratici e liberali, conclude Gobetti, “aveva
capito che Mussolini non si poteva legare con i programmi, che egli avrebbe
tradito tutti gli accordi, e dominato tutte le competizioni sul terreno del l’astuzia;
che occorreva smascherarlo con un’intransigenza feroce”.
A mio
giudizio aveva visto giusto Gobetti, e quell’“eticismo”, “elitismo” e “intransigentismo
” che gli hanno imputato quali sommi errori politici sono altrettante virtù da
elogiare. Più di ogni altra elaborazione va apprezzata la sua convinzione che
la lotta per la libertà in Italia avrebbe potuto avere qualche possibilità di
vittoria solo se a guidarla fossero stati leaders che avevano la forza morale per
resistere anche quando pochissimi erano disposti a seguirli. “Amici miei, la
lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare
delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il
nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel
suo divulgarsi. C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi
ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti”. Se Mussolini vinse, non
fu perché ci furono troppi fanatici intransigenti, ma perché ce ne furono
pochi. Gobetti è stato il primo a capire che il fascismo non era un episodio,
ma “l’autobiografia della nazione”. Un’autobiografia, possiamo aggiungere, che
deve ancora oggi narrare di antichi mali, primo fra tutti la mancanza di una “religione
dell’autonomia e del sacrificio” che insegni il culto della dignità personale. La
libertà in Italia è sempre stata fragile conquista perché sono fragili le
coscienze. Per questa ragione Gobetti ammoniva che “il problema politico
italiano, tra gli opportunismi e la caccia sfrontata agli impieghi e l’abdicazione
di fronte alle classi dominanti, è un problema morale”. Se il male è morale, il
rimedio deve essere la riforma delle coscienze, vale a dire una riforma
religiosa. Con l’aiuto di Alfieri e di Machiavelli, Gobetti riscoprì, con
straordinaria finezza intellettuale, il Dio che comanda la libertà come
principio morale e presupposto necessario della libertà politica. Come Alfieri
riteneva che non ha senso alcuno “una libertà politica che non si fondi sulla
libertà interiore –intesa questa come forte sentire” e riscoprì il Dio che vive
nel Cristo non maestro di umiltà, ma “creatore di politica libertà”.
Su
questo Dio Gobetti fonda “la religione della libertà”, contrapposta alla
religione dei servi, che deve ispirare un popolo di cittadini capaci di lottare
per la libertà perché devono, e non perché sicuri della vittoria. Una religione
che “non è più conforto per i deboli ma sicurezza dei forti, non più culto di
un’attività trascendente, ma attività nostra, non più fede ma responsabilità”. Come
gli altri maestri dell’Italia civile, Gobetti è considerato uno sconfitto: un
martire dell’antifascismo, ma pur sempre uno sconfitto perché le sue idee non
hanno trovato seguaci. Sconfitto, giova rammentarlo, non è chi perde, ma chi si
arrende. Gobetti non si è mai arreso e proprio la sua intransigenza è l’insegnamento
migliore per chi non si rassegna a vivere da servo.
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