Kamala Harris sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, se non si verificheranno eventi eccezionali. So bene che è molto facile perdere reputazione con previsioni sull’esito delle elezioni presidenziali. Ma ribadisco la mia convinzione che vincerà Kamala Harris. Non mi affido né a modelli matematici sulle tendenze elettorali, né ai sondaggi d’opinione. Rispetto i colleghi che usano queste metodologie scientifiche per prevedere l’esito delle elezioni, ma preferisco il vecchio metodo degli indizi interpretati con l’aiuto della storia.
Il primo indizio è che nel confronto con Kamala Harris, Donald Trump è partito con il piede sbagliato. Prima ancora che il dibattito iniziasse ha aspettato fermo dietro al suo podio che Kamala Harris, una donna, andasse a stringergli la mano. Il suo comportamento ha rivelato un animo meschino e fazioso, indegno di un presidente degli Stati Uniti. Evidentemente non sa che per molti elettori quello che vedono conta più di quello che ascoltano.
Altro errore è stato affermare, in tutta serietà, che a Springfield (Ohio) gli immigrati mangiano cani e gatti (“In Springfield, they’re eating the dogs. The people that came in. They're eating the cats. They're eating -- they're eating the pets of the people that live there”). Il moderatore David Muir ha immediatamente smentito l’ex presidente (“ABC News did reach out to the city manager there. He told us there have been no credible reports of specific claims of pets being harmed, injured or abused by individuals within the immigrant community “).
Il triste destino dei cani e dei gatti di Springfield è certo tema minore rispetto alle grandi questioni che Donald Trump e Kamala Harris hanno toccato nel corso del loro dibattito. Ma è rivelatore del fatto che Trump è ormai un demagogo che crede di poter impunemente dire le più assurde fandonie perché in cuor suo è persuaso che gli elettori siano dei poveri idioti e che le sue menzogne gli faranno conquistare ulteriori consensi.
Dimentica però, o nessuno gli ha spiegato, che il demagogo deve saper sedurre il popolo eccitando le soprattutto le passioni dell’odio e della paura, o il desiderio di potenza (“Make America Great Again”). Per riuscire nel suo intento può tranquillamente esagerare nei giudizi e mentire, ma entro certi limiti che dipendono dal contesto in cui parla. Altro è un comizio, altro è un dibattito in televisione. Se le spara troppo grosse ottiene l’applauso dei suoi fedeli, quelli che lo perdonerebbero anche se dicesse che gli asini volano. Ma farebbe ridere gli elettori che da lui pretendono buone ragioni e solidi argomenti, prima di scegliere se votare per lui o per Kamala Harris.
Una regola aurea della retorica politica prescrive di non ripetere troppe volte nello stesso discorso gli stessi concetti e le stesse parole. Trump ha violato anche questa regola. Ha ribadito ad nauseam che i democratici vogliono che gli USA siano invasi da milioni di immigrati che non parlano inglese e non sanno neppure in che paese sono (“They don't even know what country they're in practically”), criminali che rovinano l’economia e il tessuto sociale e morale del paese, (“They're criminals. Many of these people coming in are criminals”). Repetita juvant, insegnano i classici della retorica, soprattutto quando vuoi tirare dalla tua parte degli ascoltatori che non possono o non vogliono capire i fatti ed esigono da chi parla ragionamenti rigorosi. Ma ammonivano anche che le troppe ripetizioni stancano e suscitano in chi ascolta l’impressione che chi parla non ha argomenti o li considera degli imbecilli. Il demagogo che viola queste regole persuade chi è già persuaso, ma non persuade chi è ancora indeciso.
Senza slanci e ripetitivo durante tutto il dibattito, Donald Trump è stato particolarmente infelice nella perorazione finale. Aveva il vantaggio di parlare per ultimo e l’ha sprecato. Telespettatori e ascoltatori hanno la memoria corta. Ricordano soprattutto le ultime parole dell’oratore. Quando l’oratore chiude il suo discorso, soprattutto in occasioni molto importanti per il destino della nazione, come l’altra sera, l’oratore deve infondere speranza, fare credere nella possibilità di un futuro più luminoso, soprattutto a chi vive un presente grigio, povero, triste.
Trump ha fatto l’esatto contrario. Mentre Kamala Harris ha concluso parlando di speranza, di grandi aspirazioni, di unità, Donald Trump ha battuto ancora sul tasto della paura. Kamala Harris, ha detto, ha permesso a milioni di persone, molte delle quali criminali, di entrare nel nostro paese per distruggerlo. Nessuno degli indizi che ho commentato provano in modo inconfutabile che Trump perderà. Provano però che nel dibattito, e durante tutta la campagna elettorale, si è rivelato più buffone che oratore efficace. I buffoni fanno ridere gli elettori che vogliono ridere e deridere, quando non odiano. Di elettori così ce ne sono molti, negli USA. Ma credo che non bastino per vincere.
Il primo indizio è che nel confronto con Kamala Harris, Donald Trump è partito con il piede sbagliato. Prima ancora che il dibattito iniziasse ha aspettato fermo dietro al suo podio che Kamala Harris, una donna, andasse a stringergli la mano. Il suo comportamento ha rivelato un animo meschino e fazioso, indegno di un presidente degli Stati Uniti. Evidentemente non sa che per molti elettori quello che vedono conta più di quello che ascoltano.
Altro errore è stato affermare, in tutta serietà, che a Springfield (Ohio) gli immigrati mangiano cani e gatti (“In Springfield, they’re eating the dogs. The people that came in. They're eating the cats. They're eating -- they're eating the pets of the people that live there”). Il moderatore David Muir ha immediatamente smentito l’ex presidente (“ABC News did reach out to the city manager there. He told us there have been no credible reports of specific claims of pets being harmed, injured or abused by individuals within the immigrant community “).
Il triste destino dei cani e dei gatti di Springfield è certo tema minore rispetto alle grandi questioni che Donald Trump e Kamala Harris hanno toccato nel corso del loro dibattito. Ma è rivelatore del fatto che Trump è ormai un demagogo che crede di poter impunemente dire le più assurde fandonie perché in cuor suo è persuaso che gli elettori siano dei poveri idioti e che le sue menzogne gli faranno conquistare ulteriori consensi.
Dimentica però, o nessuno gli ha spiegato, che il demagogo deve saper sedurre il popolo eccitando le soprattutto le passioni dell’odio e della paura, o il desiderio di potenza (“Make America Great Again”). Per riuscire nel suo intento può tranquillamente esagerare nei giudizi e mentire, ma entro certi limiti che dipendono dal contesto in cui parla. Altro è un comizio, altro è un dibattito in televisione. Se le spara troppo grosse ottiene l’applauso dei suoi fedeli, quelli che lo perdonerebbero anche se dicesse che gli asini volano. Ma farebbe ridere gli elettori che da lui pretendono buone ragioni e solidi argomenti, prima di scegliere se votare per lui o per Kamala Harris.
Una regola aurea della retorica politica prescrive di non ripetere troppe volte nello stesso discorso gli stessi concetti e le stesse parole. Trump ha violato anche questa regola. Ha ribadito ad nauseam che i democratici vogliono che gli USA siano invasi da milioni di immigrati che non parlano inglese e non sanno neppure in che paese sono (“They don't even know what country they're in practically”), criminali che rovinano l’economia e il tessuto sociale e morale del paese, (“They're criminals. Many of these people coming in are criminals”). Repetita juvant, insegnano i classici della retorica, soprattutto quando vuoi tirare dalla tua parte degli ascoltatori che non possono o non vogliono capire i fatti ed esigono da chi parla ragionamenti rigorosi. Ma ammonivano anche che le troppe ripetizioni stancano e suscitano in chi ascolta l’impressione che chi parla non ha argomenti o li considera degli imbecilli. Il demagogo che viola queste regole persuade chi è già persuaso, ma non persuade chi è ancora indeciso.
Senza slanci e ripetitivo durante tutto il dibattito, Donald Trump è stato particolarmente infelice nella perorazione finale. Aveva il vantaggio di parlare per ultimo e l’ha sprecato. Telespettatori e ascoltatori hanno la memoria corta. Ricordano soprattutto le ultime parole dell’oratore. Quando l’oratore chiude il suo discorso, soprattutto in occasioni molto importanti per il destino della nazione, come l’altra sera, l’oratore deve infondere speranza, fare credere nella possibilità di un futuro più luminoso, soprattutto a chi vive un presente grigio, povero, triste.
Trump ha fatto l’esatto contrario. Mentre Kamala Harris ha concluso parlando di speranza, di grandi aspirazioni, di unità, Donald Trump ha battuto ancora sul tasto della paura. Kamala Harris, ha detto, ha permesso a milioni di persone, molte delle quali criminali, di entrare nel nostro paese per distruggerlo. Nessuno degli indizi che ho commentato provano in modo inconfutabile che Trump perderà. Provano però che nel dibattito, e durante tutta la campagna elettorale, si è rivelato più buffone che oratore efficace. I buffoni fanno ridere gli elettori che vogliono ridere e deridere, quando non odiano. Di elettori così ce ne sono molti, negli USA. Ma credo che non bastino per vincere.
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