L'altra Italia: vinta ma non vittima
In Un’altra Italia, Fano, Aras Edizioni, 2021, Pietro Polito – direttore del Centro Studi Piero Gobetti, collaboratore di Norberto Bobbio dal 1992 al 2003 – ha raccolto preziose riflessioni sull’eredità morale e politica degli intellettuali italiani del Novecento – Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Alessandro Galante Garrone, Leone Ginzburg, Silvio Trentin, Guido Dorso, Pier Paolo Pasolini, Ada Gobetti, Aldo Capitini, Franco Antonicelli, Bianca Guidetti Serra, Norberto Bobbio e altri ancora – che con i loro scritti e il loro impegno civile hanno testimoniato che c’è stata un’ “altra Italia”. Altra e opposta all’Italia fascista e (a eccezione di Piero Gobetti e di Leone Ginzburg che morirono rispettivamente nel 1926 e nel 1944) all’Italia ingiusta, corrotta, conformista, intollerante del dopoguerra. “Altra ”, ma reale, benché minoritaria rispetto alle forze politiche e ideologiche egemoni nell’Italia repubblicana, la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Minoritaria e sconfitta, e, come sempre accade agli sconfitti, dimenticata. Ha ragione Paolo Borgna, l’autore dello splendido libro Un paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, quando nella sua Prefazione annota che il dichiarato amore di Polito “per il mondo dei seminatori, sconfitti dallo spirito del loro tempo, non si traduce in risentimento verso il realismo di chi, occupandosi di politica, cerca di incidere sullo stato presente delle cose. Galante Garrone amava Mazzini ma ammirava Cavour. Anche se Polito non intravede sull’orizzonte della politica italiana un moderno Cavour, egli non ci spinge alla sorda rassegnazione e alla sterile invettiva borbottona. Piuttosto, il suo amore per i vinti va letto come attenzione per i precursori, per coloro che hanno gettato semi da cui nasceranno frutti che altre generazioni coltiveranno. Non leggiamo dunque le sue pagine con l’animo di chi piange sconsolato su un passato che poteva essere diverso. Al contrario, il suo libro è un appello alla mobilitazione delle coscienze, all’impegno culturale e politico, nonostante il razionale pessimismo sulle possibilità di successo”. (p. 6) Esiste fra gli intellettuali che Polito discute un filo comune che permette di raccogliergli entro la casa comune dell’ “altra Italia”? In tutti prevaleva una vena visibile di pessimismo. Ma, annota Polito, “nonostante l’inclinazione al pessimismo, i nostri maggiori ci hanno lasciato un invito a non cedere alla rassegnazione ”. Il criterio con cui si giudicano le persone non è il successo che “niente prova nel mondo del pensiero”, come ammoniva Ernesto Rossi. E niente prova nel mondo della politica, aggiungo, dove troppo spesso il successo arride non a chi serve ideali nobili, ma ai maestri dell’inganno e della demagogia. Ci hanno anche insegnato, non va dimenticato, un antifascismo “istintivo” che discendeva da “ragioni soprattutto morali, ideali” (p. 17) . Proprio perché erano antifascisti per ragioni morali, le vere ragioni per cui si deve essere antifascisti, nei loro scritti possiamo trovare le migliori possibili analisi del contrasto fra fascismo e antifascismo. Il regime fascista, scriveva ad esempio Silvio Trentin, “può essere concepito solo come regime ‘totalitario’, nel senso che implica sempre, per sua stessa definizione, l’assorbimento integrale della Nazione nello Stato, e l’assoggettamento istituzionale dello Stato nel Partito”. La dottrina politica del fascismo è dunque l’esatta antitesi della dottrina dei diritti dell’uomo e del cittadino. Sono giudizi storici e morali ineccepibili, rispetto ai quali frasi come “si può e si deve tranquillamente ammettere che, sì, il fascismo fece anche delle cose buone”, sono di una penosa povertà intellettuale. Comune agli intellettuali dell’ “altra Italia” era l’ideale europeo interpretato, memori dell’insegnamento di Croce, come arricchimento, mai negazione, del migliore patriottismo del Risorgimento. Fa bene Polito a citare la meravigliosa pagina della Storia d’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce “densa di significati anche per il momento storico attuale della nostra Italia nella nostra Europa”: “Già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche); e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani, non rinnegando l’esser loro anteriore, ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a Europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate ma meglio amate”. Parole da leggere insieme a quelle che Bobbio ha scritto nell’Elogio della mitezza e che Polito elogia “come monito perenne contro la cultura della diseguaglianza, dell’intolleranza e del razzismo”: “Quando vedi un bambino, che è l’essere umano più vicino alla natura, non ancora modellato e corrotto dai costumi del popolo in cui è destinato a vivere, non scorgi alcuna differenza, se non nei tratti somatici, fra un piccolo cinese o africano o indio o un piccolo italiano. Quando vedi una madre somala che piange un figlio morto o ridotto uno scheletro, ti par di vedere una madre diversa dalle altre? Non assomiglia quel pianto al pianto di tutte le madri del mondo?”.
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