Non c’è niente di
meglio delle commedie, come lettura estiva, specialmente se sono opere che
oltre a rallegrare, aiutano a capire la vita politica e la vita di tutti i
giorni. Fra tutte, le commedie di Machiavelli hanno pochi rivali quanto a
dilettare e a istruire. Se poi sono presentate e commentate in maniera
magistrale, come la nuova edizione delle opere teatrali curata da Pasquale
Stoppelli, emerito della Sapienza di Roma, per l’Edizione Nazionale (Salerno
Editrice, Roma), il piacere della lettura è assicurato. L’ ‘Introduzione’
regala infatti alcune perle di saggezza interpretativa che permettono di
gustare in maniere nuova la bellezza e la profondità dei testi machiavelliani e
gettano nuova luce su un tema che ha intrigato e tutt’ora intriga i lettori,
vale a dire il rapporto fra il Machiavelli scrittore di politica e di storia e
il Machiavelli autore di commedie.
Rapporto che Machiavelli
stesso formula nei termini di un enigma, quando si firma, in una lettera a
Francesco Guicciardini del 21 ottobre 1525, “Niccolò Machiavelli historico,
comico et tragico”. Aveva scritto storie e commedie, e dunque si capisce perché
si definiva “historico e comico”. Ma tragedie non ne aveva scritta alcuna.
Perché allora si definisce “tragico”, per la prima e unica volta nella sua
vita? Perché collega tragico a comico con quell’ ”et” ?
Roberto Ridolfi,
l’insuperato e forse insuperabile biografo di Machiavelli, ha scritto che tragici
erano gli studi storici e politici nei quali aveva raccontato e denunciato la
tragedia dell’Italia consumata dalla corruzione, depredata dai barbari
stranieri, governata da principi miserabili. Vero, ma per Machiavelli la
tragedia è presente anche nella vita degli individui non soltanto nelle vicende
degli stati. Egli stesso l’aveva vissuta quando gli impedirono di continuare a
servire la patria e operare per le grandi cose della politica, la sua vera
vocazione. Ma proprio negli anni più tristi della sua vita, Niccolò scrive le
grandi opere politiche - Il Principe, e gran parte dei Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio – e Mandragola, la sua commedia più bella e una delle più
belle del teatro italiano. In quel “comico et tragico”, c’è dunque la chiave
per capire Machiavelli.
Perché Machiavelli,
sottolinea Stoppelli, fu scrittore di gravi cose, ma fu anche “spirito faceto,
intrattenitore di compagnie, inventore di beffe, frequentatore di osterie,
amico del Riccio (un ganimede) e della Riccia (una cortigiana che fu a lungo
sua amante), poeta e canterino improvvisato. Quel che più conta è che usa i
medesimi concetti e i medesimi criteri interpretativi quando tratta di stati e
prìncipi e quando tratta dell’agire di individui comuni. Nel Principe (cap.
XVIII), ad esempio, scrive la nota sentenza: “nelle azioni di tutti gli òmini,
e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine”.
Nella Mandragola (III 11 2), per convincere la virtuosa e maritata Lucrezia a
giacere con un altro uomo, fra Timoteo afferma: “el fine si ha a riguardare in
tutte le cose”. Nelle Istorie fiorentine leggiamo: “se voi noterete il modo di
procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande
potenza pervengono, o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose,
dipoi ch’eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare la
bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano”. Nella
Mandragola (IV 2 8), Ligurio invita Callimaco, di cognome, appunto, Guadagni, a
guadagnarsi, ovvero a conquistare Lucrezia dopo essersi introdotto nel suo
letto con l’inganno, e tutta la vicenda di frode e forza assumerà, nella
conclusione della commedia, i colori della più tersa onestà.
Con la sua analisi
filologica, Stoppelli dimostra quanto sia arbitraria l’idea che Machiavelli ha scoperto
che la politica è autonoma dall’etica, nel senso che mentre le azioni degli
individui comuni possono e devono essere valutate con criteri morali (onestà,
rettitudine, lealtà, compassione, umanità), quelle dei prìncipi devono essere
valutate in base ad altri criteri, in primo luogo la stabilità, potenza e
reputazione dello stato. Questa dottrina, che Benedetto Croce ha formulato ed è
diventata vero e proprio dogma della mentalità italiana, fraintende il
significato dei testi di Machiavelli. I quali, se li leggiamo tutti, ci
insegnano che gli individui, prìncipi e non prìncipi, a parte le grandi anime e
i popoli non corrotti, cercano l’utile e del piacere. Il denaro, commenta
Stoppelli, “è fondamentale nella vita degli stati e nell’esercizio del potere,
ma è essenziale anche a soddisfare desideri e voglie personali, come avviene
per alcuni personaggi delle commedie. L’avidità del denaro può indurre al
tradimento della patria o della propria parte, ma anche, molto più in piccolo,
a far commercio del proprio ufficio, come per esempio fra Timoteo è uso”. Quando
la passione dominante è l’affermazione a tutti i costi della volontà del
singolo, la sola differenza fra le azioni dei prìncipi e quelle degli individui
comuni è che le prime possono avere conseguenze tragiche per i popoli mentre le
seconde toccano soltanto poche persone.
La nuova edizione
delle opere teatrali di Machiavelli ha dunque due meriti: ci insegna che per
capire Machiavelli dobbiamo studiarne i diversi volti: il funzionario, il
legato, l’analista politico, il teorico dell’arte militare, lo storico,
l’umanista, il rimatore volgare, il linguista, il poeta canterino; ci invita a
mettere una buona volta da parte la dottrina dell’autonomia della politica che,
oltre ad essere cattiva interpretazione di Machiavelli, ha già fatto abbastanza
danni nella nostra storia. Il primo insegnamento vale soprattutto per gli
studiosi; il secondo ci riguarda tutti, come cittadini.
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