Per
molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha
avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico
che teneva banco, alla fine degli anni’60, fra i movimenti della sinistra
extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani
si siano avvicinati al PCI anche perché quel partito si proclamava erede di
Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti. Nel 1975 esce
infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione
critica dei Quaderni del carcere, a
cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte
iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto
di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura
del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia
d’Italia, sulla questione meridionale.
A
Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista
la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della
Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere
efficacie, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione
socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle
libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via
sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente
[vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di
conquistare il potere governativo”, e che deve continuare ad essere dirigente
anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via
democratica.
L’intuizione
più felice di Gramsci è a mio giudizio l’idea della “riforma intellettuale e
morale”. In un passo delle ‘Noterelle sul Machiavelli’, la descrive come come
“elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua
capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma
protestante e all’illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i
caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”. E
giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non
essere legata a un programma di riforma economica , anzi, il programma di
riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma
intellettuale e morale”.
“Banditore”
della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno
Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più
un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in
vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore
di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi
subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di
ideali di emancipazione.
Il
limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non non
risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di
coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba
essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “il moderno
Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e
morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene
concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha
come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incremenatre il
suo potere o a contrastarlo”. Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto,
nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III,
p.1561). Ma la coscienza personale è e
deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o
la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto
collettivo, non importa se è lo stato, o il partito o una chiesa. Se la
coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non
è più pienamente libera e non può costruire nè uno stato nè una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di
Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialimo
liberale: “Non esistono
fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in
quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano
profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...]Uno Stato libero vuole
prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti.
Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima
analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si
accompagnerà ad una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente
rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, piú buona, piú giusta,
piú spirituale.”
Carlo Rosselli
partiva da Mazzini; Gramsci da Marx e da Lenin. Per arrivare all’idea del
socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e
morale capace di relizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva
percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli
diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito,
senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere,
l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore
della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per
tutti i tempi.
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