Nato
quarant’anni fa, il Dizionario di politica ideato e curato da Norberto
Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino è tutt’ora una guida per chi
voglia capire le vicende politiche del nostro tempo. Fin dalla prima edizione
del 1976, i curatori hanno scelto di non inseguire le mode del linguaggio
politico e nelle edizioni successive (1983, 2004, 2016) si sono limitati a mettere
a riposo le voci diventate obsolete e ad accoglierne nuove. La prima edizione
si apriva con “Acculturazione”, seguita da “Agraria”; quella del 2004 con “Alienazione
”; quest’ultima con “Account ability”, lasciata in inglese per l’impossibilità
di trovare un equivalente in italiano.
Il
Dizionario aiuta a valutare e a scegliere con cognizione di causa, non è un
catechismo. Di ogni voce fornisce le diverse interpretazioni che si sono
alternate nella storia del pensiero politico e si contendono il campo nella
scienza politica contemporanea. Saranno i lettori a scegliere l’interpretazione
meglio risponde alle loro passioni, idee, interessi. La maggior consapevolezza
critica che il Dizionario offre sarebbe un cambiamento profondo rispetto
alla povertà del contemporaneo dibattito politico, se fossero in molti a
leggerlo.
Chi
voglia capire cosa significa “populismo”, tema dominante del nostro tempo può leggere
, ad esempio, la voce “Neopopulismo” che ci insegna che mentre il populismo classico,
ottocentesco, favoriva forme di mobilitazione sociale attraverso la creazione
di organizzazioni degli interessi, il “neopopulismo” si appella direttamente ai
settori sociali non organizzati, oltrepassando le associazioni già esistenti. Tipico
del neopopulismo, spiega Davide Grassi, autore della voce, “è la propensione a rafforzare
il potere del governo a scapito di parlamento e partiti, ad imporre riforme dall’alto,
senza piegarsi a compromessi ed accordi con le parti sociali e politiche, per vincere
le resistenze degli interessi costituiti e facilitare le necessarie riforme
strutturali dell’economia”. Solo politici outsider, senza legami con i centri
del “blocco di potere” della società, avrebbero dunque “la capacità di innovare
profondamente il tessuto sociale e politico. Ma i leader populisti, ammonisce
il Dizionario, “sono in genere riluttanti a limitare il proprio potere, creando
istituzioni politiche solide ed autonome, con regole uguali per tutti”.
Da
meditare è pure la voce “Governabilità”, altro cardine dell’ideologia dominante
contemporanea. Gianfranco Pasquino ci ricorda che l’espressione ‘governabilità’,
delinea una situazione nella quale alla stabilità politica dei governanti “si
accompagna la possibilità della loro efficienza/efficacia decisionale. Nel caso
opposto, governanti incapaci di decidere o capaci di produrre soltanto decisioni
dannose e controproducenti creano le condizioni necessarie e sufficienti per la
situazione di ingovernabilità”. E ci rammenta anche che i sostenitori della
governabilità come principio supremo dell’ordine politico tendono spesso ad
invocare il “ritorno ad un mitico stato di ordine politico del sistema e di
obbedienza dei cittadini”.
Preziosa
è poi la voce “Democrazia plebiscitaria”, spesso giudicata una democrazia autoritaria.
La democrazia plebiscitaria, ammonisce Pasquino, “è una forma concreta di
democrazia, ma la sua durata e la sua qualità dipendono dai freni e dai
contrappesi che Parlamento e società sono in grado di produrre e di fare
funzionare. Lo straordinario impatto che la televisione ha sulla politica
contemporanea rende quei freni e quei contrappesi sempre più importanti per
evitare che la demagogia di massa si traduca in regimi autoritari e venga,
invece, contenuta nel quadro di una democrazia che, per quanto plebiscitaria, riesca
ad esaltare le qualità anche personali della leadership, sottoponendole a un
efficace controllo istituzionale e sociale”. Ma se la televisione e il
Parlamento sono controllati dal governo e non esistono forti partiti e
associazioni d’opposizione la democrazia plebiscitaria che avremo se vince il
Sì sarà una democrazia plebiscitaria autoritaria.
Ma la
più utile di tutte è ovviamente la voce ‘Referendum’, affidata a Pier Vincenzo Uleri,
che pone l’importante domanda: ‘Chi controlla cosa con il referendum?’ Ciascuna
forma di referendum, ci spiega l’autore, “può essere classificata secondo: (a)
il grado di controllo assicurato ai governanti in termini di potere di
attivazione (del processo decisionale referendario); (b) il grado di
trasferimento di potere decisionale dai governanti ai governati, per tipo di
decisione e per materia oggetto del voto. Tanto maggiore è il controllo dei
governanti sul potere di attivazione delle votazioni referendarie e sulle materie
oggetto delle votazioni referendarie, tanto minore sarà – probabilmente – il
grado di trasferimento del potere decisionale dai governanti ai governati, e
viceversa.”
Abbiamo
dunque referendum voluti e controllati dal governo, referendum obbligatori previsti
dalla costituzione per convalidare o respingere le deliberazioni del governo, e
i referendum promossi e voluti dagli elettori. Questi ultimi soltanto, “implicano
un maggior trasferimento di potere decisionale dai governanti ai governati ”, e
possono essere considerati un istituto di democrazia. L’esatto contrario del
referendum al quale siamo chiamati.
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