Il partito della nazione, ci assicura Renzi, "non è un
minestrone in cui entra di tutto. Il Pd è la casa del centrosinistra. È un partito
di sinistra con una visione riformista del Paese che si può allargare anche ai
più moderati. È una continuazione del partito a vocazione maggioritaria di cui
parlava Veltroni. Mi sembra del tutto evidente che gli elettori del Pd non
moriranno democristiani".
Il proposito, se interpreto bene, è di trasformare il Pd in un partito
nuovo che aspira a rappresentare un ampio arco d'interessi, bisogni e culture e
a raccogliere di conseguenza un consenso elettorale talmente ampio da
consolidare ancora di più il proprio ruolo di forza di maggioranza relativa, se
non assoluta. Progetto del tutto legittimo, ma perché chiamare un partito con
queste caratteristiche "partito della nazione"?
Se le parole hanno ancora un senso nel dibattito politico italiano,
del che è lecito dubitare, "partito della nazione" vuol dire molto di
più di un partito che aspira a raccogliere ampi consensi. Deve essere un
partito che si propone di rappresentare tutta la nazione, di esserne la più
vera espressione, la sua guida sicura. Ma in questo caso gli altri partiti
diventerebbero degli inutili intralci. A considerarla con un minimo di
attenzione, l'idea del partito della nazione nasce dalla malcelata ambizione a
essere partito unico.
Questa vocazione a fare da soli si è già manifestata nella sconsiderata
determinazione di Renzi ad attuare la riforma della Costituzione a maggioranza e
a far passare la nuova legge elettorale a colpi di voti di fiducia senza
cercare l'accordo con le minoranze esterne ed interne. È emersa pure nella
disponibilità ad accogliere tutti nelle proprie file: condannati, inquisiti,
corrotti, corruttori, neofascisti, collusi con la mafia. Anche loro sono parte,
e non piccola né irrilevante, della nazione. A che titolo escluderli, se sei il
'partito della nazione'?
In regime repubblicano e democratico i partiti devono rimanere parti.
Parti che rappresentano interessi diversi, con diverse visioni della società, con
diversi progetti per il futuro e diverse memorie rispetto al passato. Parti che
cercano accordi e compromessi per il bene comune e si sforzano di convincere il
maggior numero possibile di cittadini della bontà delle loro proposte. Parti
che si sentono sinceramente leali alla Costituzione repubblicana e operano per
mandare in Parlamento cittadini che sanno e vogliono rappresentare la nazione. Ma
sempre parti e non aspirano a diventare il tutto.
Nella storia dell'Italia repubblicana, il partito che meglio degli
altri ha saputo rappresentare interessi e culture diverse è stato la Democrazia
cristiana, maestra nell'arte della mediazione e del compromesso. In questo
senso è stato un partito nazionale. In modo diverso anche il Pci ha cercato fin
dal ritorno di Togliatti di essere partito di classe e nazionale, vale a dire
capace di raccogliere attorno al nucleo fondamentale della classe operaia,
contadini, intellettuali, ceti medi produttivi e le forze più sane
dell'imprenditoria. Ma né l'una né l'altro hanno mai accarezzato l'idea di
proclamarsi 'partito della nazione'. Non l'hanno fatto perché erano orgogliosi della
propria identità ed erano consapevoli del carattere inevitabilmente autoritario
di qualsiasi partito che vuol essere il tutto. Il partito che diventa il tutto,
d'altra parte, lo conoscevano bene: era il partito nazionale fascista.
Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando sostiene, su questo giornale,
che "il partito della Nazione è il trionfo del trasformismo".
Aggiungo che con l'Italicum e una sola camera elettiva avrebbe di fatto il
monopolio del potere politico: ricetta infallibile per avere una classe
politica ancora più corrotta e incompetente di quella attuale.
Nessun commento:
Posta un commento