“Possibile che siate tutti d’accordo, nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese (?). Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti”. Con queste parole, scritte dalla “prigione del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le Brigate rosse, Aldo Moro, presidente della Dc, indicava nella “presunta ragion di Stato” il principio di azione politica che, fatto proprio dai dirigenti del suo partito, escludeva ogni soluzione umanitaria o di compromesso e lo condannava a morte. Moro esortava invece i dirigenti della Dc a “contemperare ragioni umane e morali”e spiegava che con la loro “inerzia, insensibilità e rispetto cieco della ragion di Stato”, essi reintroducevano di fatto la pena di morte in Italia. A commento di queste drammatiche parole di Moro, Gianfranco Borrelli, nel suo importante saggio Repubblica, ragion di Stato, Democrazia cristiana (Cronopio) osserva che Moro si appellava alla “buona ragion di Stato” che difende le libertà politiche, civili e sociali, contro la “cattiva ragion di Stato”che sacrifica la vita di un uomo in nome dell’interesse supremo dello Stato. Ha ragione Borrelli quando sostiene che la dottrina della ragion di Stato non ha soltanto autorizzato “a stravolgere ogni genere di norma”per difendere l’interesse dello Stato, ma è stata anche “una nuova arte razionale del governo” che persegue la “conservazione politica”.